“In un paese come tanti” (di Tonino Calà)

tratto da “Racconti senza pretese”   (di Tonino Calà)

“Il paese era praticamente morto. Chiudevano le attività commerciali e i giovani partivano per il nord in cerca di lavoro e per ottenere dal destino un futuro migliore. Una nuova ondata migratoria che era diversa da quella degli anni ’60. Non si partiva per ritornare, si partiva per sempre, recidendo i legami con il luogo di nascita e di appartenenza. I giovani non sarebbero più ritornati. Quanta amarezza nelle parole del vecchio che sedeva su una panchina nella piazza principale del paese. Nessuno ricordava peggiore momento di quello. La gente era triste e a nessuno andava di parlare. A Monte Raffaele la popolazione invecchiava e si rischiava la chiusura di ogni speranza. Si diceva: “è diventato un paese per vecchi”. Un uomo di mezza età camminava solo per le strade sempre più deserte. Da anni aveva quella visione di un paese al tramonto, dove tutto scompariva e tutto ammutoliva. A partire dagli anni ’80, l’allegra gestione di una finanza pubblica che avrebbe generato il debito. Un debito destinato a crescere e che avrebbe portato il paese al disastro. Così era ovunque, perché anche altrove ci si era illusi creando posti di lavoro fittizi e non necessari, svilendo spesso il merito e la competenza. Non si pensava al futuro e i padri non capivano che stavano creando il deserto per i loro figli. La radice della mala pianta avrebbe generato frutti acerbi ed amari. Sì, abbondavano le parole e i discorsi, una lunga serie di promesse e di illusioni. Ma tutto rimaneva fermo e nessuno lo capiva. Anche i più avveduti si illudevano e non capivano. Nessuno voleva raccontare la verità. Ci si trastullava con feste e festini, con riti pomposi e sagre paesane, con giri e rigiri di convenevoli e finti cortei di amicizia e di fratellanza. Neanche la “comparanza”, tanta cara al paese, aveva diritto di cittadinanza.

Un tale, artista e visionario, l’aveva raccontato. “Non è più un paese vivo. Tutto si è atrofizzato. Sembra quasi che la gente abbia smesso di credere, di credere nella vita, di credere nell’amicizia, di credere nel riscatto. Povero nostro paese, insensibile e distratto, dimenticato e cancellato”.

Un giovane, in un angolo di strada, tra i passanti indifferenti e sbadati, presi dalla frenesia quotidiana, sorrideva e non diceva nulla. Cosa aveva da sorridere? Non si capiva. Non c’era alcun motivo per sorridere. Lui sorrideva, anche se non c’era alcun motivo. Qualcuno si accorse di lui e decise di fermarlo. Gli chiese con fare incuriosito: “perché sorridi?”. Il giovane, dopo attimi di silenzio che sembravano dilatarsi per un tempo infinito, gli rispose sereno e convinto: “Da tempo sono qui e vedo sempre la stessa scena. Gente indaffarata che corre, si lamenta, si addolora, ride, piange e fa tutte le cose che sono umane. I tempi sembrano cambiati ma tutto si muove come sempre. Illusioni e delusioni. Sconfitte e successi. Amarezze e trionfi. Litigi e riconciliazioni. Come sempre, la vita scorre e tutti cercano la novità che mai arriva. Ecco perché sorrido. Sono qui da sempre e nulla è cambiato. Nessuno vuole cambiare, fa comodo così. Ma io ho fede, tanta fede e vado avanti lo stesso. Altrove non è così diverso il mondo. Forse è peggio.

Il passante che lo aveva interrogato rimase stupito, meravigliato. Sapeva anche lui che era così! Tutti sapevano che non c’era nulla da fare. Eppure la vita non può essere cosi schifosa, si disse tra sé e sé. E poi: come fa quel giovane, unico rimasto, ad avere tanta fede e voglia di rimanere! Si sentiva inquieto il passante, molto più grande di età del giovane che aveva incontrato. Aveva scorto nello sguardo del giovane una luce che mai aveva visto. Come poteva avere quella luce, si chiese, se tutto va in malora e tutto sembra un deserto? Immondizia per le strade, gente che fa fatica perché senza lavoro e senza futuro, strade bucate, rovine per ogni dove, incurie di ogni genere. Non capiva e nel dilemma si macerava. Paolo, il passante, era un uomo di mezza età. Di esperienza, nella vita ne aveva fatto tanta. E si disse, riflettendo a bassa voce, sarà la giovane età, l’entusiasmo giovanile che lo rende ottimista e fiducioso. Forse invecchiando l’ho perso l’ottimismo e non credo più a nulla.

Da giovane era credente e frequentava la chiesa, andava regolarmente a messa. Alcune drammatiche e dolorose vicende lo avevano fatto ricredere. Diceva sempre: grazie ai cattolici sono diventato irreligioso, non credo più. Eppure qualcosa gli era rimasto di quella fede. Non sapeva definirla, non sapeva precisarla, preferiva quasi dire: non so! Era l’incertezza della fede: non so. Aveva letto tanto sin dai tempi dell’università: filosofia, antropologia, letteratura, teatro, poesia, teologia, scienze sociali, psicologia, etnologia, tradizioni popolari, psicoanalisi, pedagogia, docimologia, metodologia didattica e tante altre cose, di cui a volte smarriva il senso, il significato. Non ricordava poi tanto. Una cosa gli era rimasta impressa nella mente: la fede adulta. Cosa era la fede adulta? Era una fede personale in qualcosa che era inconoscibile, invisibile che poteva chiamarsi Dio o Altro. Forse, la semplice fede nella vita. Le religioni erano delle pie illusioni, sistemi chiusi per carpire la buona fede e il consenso della gente, dei poveri assetati di giustizia in cerca di riscatto o di coloro che per paura della morte o altro bisogno cercavano labile conforto. No, no, conosceva bene l’illusione delle religioni. Aveva anche conosciuto il buddismo e le culture orientali. La compassione, l’amore per il prossimo e tante altre cose di cui tutte le religioni sono piene. Ma conoscendo l’umanità, uomini e donne, si era reso conto dell’inganno. Nulla poteva far pensare che fossero giuste le religioni: l’essere laico era la posizione giusta. Aveva letto di Freud e di Schopenhauer, del loro radicale pessimismo. Nulla che facesse pensare positivamente.

Ci sarà pure un modo, si disse, per avere una visione più ottimistica della vita senza dovere ricorrere alle illusioni. Non lo aveva trovato. Non aveva trovato il senso della vita. Forse perché non c’era alcun senso da trovare. E ripensava, quindi, al giovane entusiasta. Come poteva essere entusiasta quel giovane quando nulla predisponeva all’entusiasmo e i suoi coetanei erano andati via per sempre? Un interrogativo senza risposta. Un rebus. Di colpo gli venne in mente un’idea, una folgorazione. Ebbe ricordo di una favola di Hermann Hesse nella quale si narravano storie meravigliose fatte di luoghi splendidi, di donne e uomini innamorati e affratellati, di libri pieni di stupore e felicità dove il tempo si era fermato, di presenze trasognate e stravaganti, di magie e sorprese immaginabili. La ricordava quella favola perché il sorriso lo prendeva in tutta la sua pienezza, fuori dal tempo e dallo spazio, muto nella lettura e tutto per lui il godimento di quell’istante, come se il finito e l’infinito si incontrassero. Nello spazio dilatato dell’universo o in un altrove sconosciuto e dimenticato, qualcosa che facesse pensare all’assoluto: l’infinito, un’estasi della mente. Forse la vita, si disse, è una favola e quel giovane si cibava di favole. Non trovava altra spiegazione plausibile. Da tempo, le emozioni lo avevano lasciato. Non riusciva più a commuoversi. Non era facile agli entusiasmi. Non che si fosse indurito. Anzi, mostrava sempre di possedere una sensibilità umana non comune. Nei ragionamenti abdicava quando gli altri non volevano ragionare. Era diventato solitario. I rapporti sociali li selezionava e li diluiva. Tutto si era fatto per lui relativo e poco interessante. Tutto si era fatto blando e rarefatto. La vita gli era cambiata. Si mise a sorridere: quel giovane era lui stesso”!  (Tonino Calà)

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