Vigilia di speranza e paura per Massimo Bossetti, l’uomo accusato dell’omicidio pluriaggravato di Yara Gambirasio. Domani i giudici della Corte d’assise di Bergamo emetteranno il loro verdetto: ergastolo con isolamento diurno per sei mesi come chiesto dall’accusa, una pena ‘ammorbidita’ da possibili attenuanti per il muratore incensurato o la libertà immediata dopo due anni in carcere. Sarà Bossetti a parlare nell’ultima udienza per ribadire l’impossibilità di confessare un delitto non commesso, per chiedere di non condannare un innocente.
Dichiarazioni spontanee prima che la giuria, composta da due togati e da sei giudici popolari, si ritiri in camera di consiglio per decidere se è lui il colpevole della morte della 13enne di Brembate di Sopra. I giudici dovranno valutare quanto emerso nel processo di primo grado durato un anno: 45 udienze in cui accusa e difesa si sono date battaglia nel ricostruire quanto accaduto il 26 novembre 2010, giorno della scomparsa della giovane ginnasta. Al centro dell’inchiesta durata quattro anni c’è il Dna: la traccia biologica trovata sugli slip e sui leggings della vittima attribuita a ‘Ignoto 1’ poi identificato in Bossetti, finito in carcere il 16 giugno 2014.
È il “faro” dell’indagine “che non ha pari in Italia e nel mondo” per il pubblico ministero Letizia Ruggeri che liquida con il termine “anomalia” l’assenza del Dna mitocondriale (indica la linea materna, ndr) dell’imputato sulla “prova regina”. Il Dna nucleare è di Bossetti “e solo quello ha un valore forense”, sostiene. Un “mezzo Dna contaminato” la cui custodia e conservazione “sono il tallone d’Achille” di un processo “indiziario” ribattono i difensori Claudio Salvagni e Paolo Camporini. Provette e reperti di cui contestano i risultati e che, in ogni caso, “sarebbero un indizio non preciso di un contatto, non di un omicidio”.
È il Dna la “pistola fumante” contro il muratore di Mapello per il pubblico ministero. Una prova che va letta insieme agli altri indizi “corollari” di un’indagine non ha tralasciato nessuna ipotesi. Solo tre mesi dopo la scomparsa, il 26 febbraio 2011, il corpo della 13enne viene trovato in un campo di Chignolo d’Isola e da lì si riparte per la caccia all’uomo che ha infierito su di lei. Quella traccia biologica è la chiave di svolta, ma contro Bossetti per l’accusa ci sono altri indizi: dal passaggio del furgone davanti alla palestra alle fibre sulla vittima compatibili con la tappezzeria del suo Iveco; dalle sferette metalliche sul corpo di Yara che rimandano al mondo dell’edilizia all’assenza di alibi per l’imputato e al suo tentativo di fuga il giorno dell’arresto.
Elementi su cui la difesa ribatte punto su punto. Il furgone immortalato vicino al centro sportivo di Brembate non è di Bossetti e l’allineamento degli orari delle telecamere non combacia con i tempi dell’accusa; le sfere e le fibre non riconducono con nessuna certezza all’imputato che non ha mai cambiato vita e non ha mai tentato di scappare. Nessuna certezza sull’orario della morte di Yara, né sul luogo o con che armi sia stata colpita: di quanto accaduto “non c’è certezza di niente, ci sono solo suggestioni”.
È la stessa accusa in aula a escludere che vittima e presunto carnefice si conoscessero e ad ammettere che non è possibile indicare un movente per un delitto. È nella passione del muratore di Mapello per le donne – testimoniato dalle ricerche pornografiche sul computer di famiglia o nella corrispondenza con una detenuta – che si cela forse il motivo di un omicidio non premeditato. Le ricerche pornografiche risalgono a tre anni dopo la morte della 13enne e non indicano nessuna perversione dell’imputato, tagliano corto i difensori che chiedono ai giurati “un atto di grande coraggio”. Domani la parola passerà alla corte: sarà il presidente Antonella Bertoja a leggere la sentenza, lontano da fotografi e telecamere non ammessi in aula a causa del “clima avvelenato” creatosi intorno al processo.
(Fonte AdnKronos.it)