Intervista al prefetto di Vibo Valentia. L'ex capo della Mobile di Caltanissetta e questore di Caserta e Reggio Calabria racconta la sua battaglia contro la criminalità organizzata in Italia. “I problemi sociali rischiano di offuscare il dibattito sulle mafie”. Le indagini sull'omicidio del sindaco Abbate: “Trovammo l'assassino con i metodi classici”. E un invito allo Stato: “Non canti vittoria, i boss fanno ancora affari”.
CALTANISSETTA – C’era quella sera di settembre del 1982 in via Isidoro Carini, quando i kalashnikov massacrarono il prefetto di Palermo Carlo Alberto Dalla Chiesa, uccidendo la speranza dei palermitani onesti. C’era quel pomeriggio di maggio del 1999, quando un pugnale da sub trafisse il cuore del sindaco in jeans, Michele Abbate. Era in prima linea a Milano, quando negli anni Novanta i tentacoli dell’ndrangheta lentamente salivano lo Stivale per avvinghiare il nord Italia. O in trincea nella terra dei sanguinari casalesi, quando ancora la potenza di Gomorra era sconosciuta al mondo. Carmelo Casabona si racconta. Lui, oggi prefetto a Vibo Valentia dove pulsa il cuore dei trafficanti di droga della ‘ndrangheta, nisseno purosangue e “sbirro” per natura prima ancora che per professione. Una carriera brillante nella Polizia di Stato. Alla Omicidi di Palermo. Capo della Mobile a Caltanissetta. Dirigente della Criminalpol a Milano prima, a Catania dopo. Questore a Caserta, Agrigento, Ragusa, Reggio Calabria. Direttore del secondo reparto della Dia. Poi prefetto a Sondrio. Ha trascorso più tempo sulla strada, che nelle sale ascolto a sbobinare intercettazioni. È il poliziotto vecchia scuola, capitale umano in via d’estinzione oggi ed è uno degli indiscussi protagonisti della lotta alla criminalità organizzata in Italia. Alla parete, una foto lo immortala in America con i magistrati Giancarlo Caselli, Gianni Tinebra e colleghi dell’Fbi. Missione: interrogare in carcere il superboss Tano Badalamenti.
“Fatemi parlare con il dottore Casabona…”, disse dalla cella l’allora capo decina di San Cataldo, Leonardo Messina, che decise di svelare i segreti della mafia. Gli affari con gli imprenditori e i patti la politica. Il resto è storia. Il 17 novembre 1992, la cosiddetta notte del Safari antimafia, l’operazione “Leopardo” scosse la Sicilia e investì come un uragano l’Italia: centinaia di arresti e indagati nei ranghi dei clan e dei palazzi del potere. Da allora, nonostante i tanti successi dello Stato, la criminalità organizzata è cresciuta e ha preso batoste. Ma guai, ammonisce il “mastino” Casabona, a fare salti di gioia e allentare la morsa.
Non è d’accordo che la risposta dello Stato è stata forte nella lotta alla mafia?
Piuttosto che un’involuzione, il sistema mafioso ha subìto una evoluzione. Sarebbe un gravissimo errore, da parte dello Stato, cantare vittoria. Mi auguro che ciò non avvenga, anche se oggi l’attenzione dello Stato è maggiormente orientata verso la corruzione nella Pubblica amministrazione, e ce n’è tantissima. Non sento parlare molto di criminalità organizzata, però non va sottovalutato che la mafia è silente. I problemi della nostra società, la crisi delle famiglie, i posti di lavoro che mancano, ha messo da parte anche l’attenzione dei giornali sul fenomeno mafioso. I mafiosi hanno imparato la lezione, cercano di non commettere omicidi per evitare l’attenzione delle forze investigative, si sono estesi in tutta Europa e secondo me oggi la criminalità organizzata sta facendo molti affari. I mafiosi sono dei miserabili, ma ricordiamoci che l’economia della mafia non la gestiscono i boss, ma i loro consulenti che sono in grado di pagare o ricattare. I migliori esperti ce li hanno loro.
Le inchieste sugli affari delle holding criminali e le collusioni con la politica e l’imprenditoria, a distanza di anni, ci confermano che la stagione del malaffare non è mai finita.
No, perché altrimenti dovrebbe finire anche la criminalità. Ma da quando è nato l’uomo esiste il crimine. Ci saranno meccanismi diversi, ci saranno leggi sempre più adeguate al contrasto e la mafia tenterà di eluderle. Ma sarà un’eterna guerra tra guardie e ladri, come nel film con Totò e Aldo Fabrizi. Non cambierà nulla…
Andiamo agli anni Novanta. Se le dico “Leopardo”, cosa risponde?
Rispondo dicendo che questa operazione è passata alla storia, ha rotto molti tabù. Perché Leonardo Messina fu uno dei pochi capimafia a pentirsi all’epoca. Quando arrestai il boss Piddu Madonia grazie alle sue rivelazioni, cercai di farlo collaborare. Mi rispose che sarebbe morto in cella, piuttosto che pentirsi. Madonia, durante un colloquio in carcere, si alzò e mi ringraziò. Gli chiesi perché e mi rispose che, a differenza di altri, non avevo mai svegliato i suoi figli durante le perquisizioni notturne quando era latitante. Gli altri, non ha importanza chi, guardavano perfino nella culla. Ma ero sicuro che lei lì dentro non ci stava, gli dissi…
Quando arrivò alla Mobile nissena, affermò: ho ereditato un ufficio con 18 uomini e due Fiat Uno azzurre.
È stata un’esperienza entusiasmante, c’era una squadra eccezionale. Con queste risorse iniziammo a contrastare la mafia, cominciando da Gela dov’era in corso una sanguinaria guerra tra Stidda e Cosa Nostra che fece centinaia di morti. L’esperienza investigativa di Caltanissetta ha segnato la storia della lotta alle cosche. Ricordo quando una poliziotta mi salvò la vita durante una perquisizione a un mafioso che a Gela gestiva una pizzeria. Era talmente incazzato che mentre parlavo con uno dei miei ragazzi, lui cercò di buttarmi una pentola di sugo bollente ma lei riuscì a bloccarlo. Le donne sono sempre più svelte degli altri.
Poi arriva il delitto del sindaco Michele Abbate e la Polizia, di colpo, si ritrova il fiato sul collo di una città impaurita e smarrita.
Non soltanto dell’opinione pubblica, ma anche dei giornali e del Governo con l’allora ministro dell’Interno Iervolino. Tutti volevano l’assassino. All’epoca qualcuno mi disse che sarebbe stato un delitto impossibile da risolvere. Altri parlavano di un omicidio di mafia, ma io dubitavo perché la mafia non uccideva con i pugnali. Iniziammo a capire la provenienza di quest’arma. Chiesi ai miei ragazzi di girare tutte le armerie, ma senza successo. Così ebbi un’intuizione. Dissi di andare a controllare al mercatino che si svolgeva all’ex macello. Tra le bancarelle trovarono lo stesso pugnale con il fodero nero e azzurro. Cominciammo le perquisizioni, incrociammo l’elenco degli impegni in agenda del sindaco e dei pazienti. Così arrivammo a William Pilato e in casa sua, dietro l’armadio, trovammo il fodero.
Si tratto di un’indagine alla vecchia maniera. Questo caso la segnò umanamente?
Non avevo anima quando lavoravo, c’era semplicemente tecnica. Grazie all’intuito scoprii questo omicidio. Il poliziotto è eclettico. Chi entra in Polizia diventa un’arma da guerra, ragiona, guarda i particolari. Solo chi fa questo mestiere riesce ad affinare queste qualità. Se lo fa per lo stipendio, non sarà mai un buon poliziotto ma un impiegatuccio. Se vuole misurarsi con l’intelligenza dei criminali e vuole servire lo Stato, è una bella motivazione. È il mestiere più bello del mondo. Ci vuole coraggio, resistenza, intelligenza, conoscenza, durezza e anche dolcezza. A volte con una carezza riesci a ottenere di più che con un cazzotto…
In giro tra Questure e prefetture d’Italia, ha sacrificato gli affetti. Rimpianti e progetti per il futuro?
Nel 1994, alla Criminalpol di Milano, coordinai l’operazione “I fiori della notte di San Vito” con l’arresto di 300 affiliati alla ‘ndrangheta, della quale ancora nessuno conosceva la potenza. Dovevo decidere se restare lì o perdere la famiglia. Ilda Boccassini mi chiese di partecipare almeno al blitz. I bambini piangono, me ne fotto, le dissi. E andai via. Ho pagato un prezzo altissimo, non ho visto crescere i miei tre figli. Ma ora penso alla pensione. Tra due anni lascerò, ma non ce la so a fare il pensionato. Devo trovare qualcosa da fare nel tempo libero, ma non so far nulla. Eccetto che lavorare e trovare le soluzioni ai problemi.