CALTANISSETTA – Voleva sembrare Michel Corleone Salvo Riina, intervistato da Bruno Vespa per la RAI: impassibile, indifferente per comunicare innocenza, non estraneo alla mafia ma sostenitore della possibilità di non schierarsi, di non dovere scegliere tra il crimine organizzato o no, nell’orizzonte persuasivo del luogo comune più universale e condivisibile che nella sua situazione si può citare, “amo mio padre e la mia famiglia, e i valori che mi hanno trasmesso”. Citava i comandamenti, “Onora il padre e la madre”, e alla domanda di Vespa sul “Non uccidere” evocava addirittura obliquamente Papa Francesco e il suo (su ben altri argomenti) “non tocca a me giudicare”. Con lo stesso procedimento i criminali nazisti rivendicavano, nei processi che li chiamavano a rispondere delle proprie responsabilità, la naturale, doverosa, obbedienza agli ordini dei superiori, sorpresi che eseguire gli ordini potesse essere considerato un crimine. Hannah Arendt ne aveva ricavato un testo celebre: “La banalità del male”. E Martin Luther King in quegli stessi anni aveva denunciato il “silenzio degli innocenti” di fronte ai crimini del razzismo, più pericoloso della “cattiveria dei malvagi”.
Apparentemente scontate allora le risposte del giovane Riina, dissociate dalla percezione del contesto criminale in cui sono maturate, il contesto che ha nutrito e coltivato il “male assoluto”, la mafia, sistema di annientamento della libertà delle coscienze e del rispetto della dignità umana. “I morti li rispetto tutti”, pontifica il delfino del Capo dei capi di fronte alle domande, garbate, fin troppo, di Vespa, sulle vittime delle stragi. Nessuna dichiarazione che chiarisca come intenda rispettare i vivi, rispetto all’uso sistematico della violenza, che nell’intervista sembrava assente, in dissolvenza rispetto al viso paffuto e allo sguardo volutamente inespressivo del giovane boss (già condannato per associazione mafiosa e che ha scontato per questo otto anni e dieci mesi di carcere). Della mafia non parla: una cosa di cui non si parla non esiste. Lo aveva già sostenuto suo padre al maxi-processo, rispondendo come un sofista della Magna Grecia alla domanda del Presidente Giordano su come i mafiosi chiamassero Cosa Nostra: “non la chiamavamo” aveva risposto. Chiusa la questione. E la retorica dei sofisti è stata la struttura portante dell’intervista rilasciata a Vespa (e poi visionata e autorizzata con liberatoria, come da contratto): luoghi comuni, omissioni mirate, normalizzazione del contesto criminale descritto come assente dalla vita e dalla crescita del giovane Riina. Figli che non vanno a scuola, che dichiarano un cognome diverso dal proprio, che sanno da tutti i media che il proprio padre è definito il capo dei capi e non si fanno domande, non gli chiedono niente, mai, non hanno la curiosità di voler capire quella condizione, di cui si limita a dire che per loro “era come un segreto di famiglia, di cui non si doveva parlare”. Omertà antropologica, genetica, quasi lombrosiana. L’intervista, ha dichiarato Vespa, aveva un obiettivo di informazione, anzi, quasi didattico: “se si vuole combattere la mafia bisogna conoscerla”, ha pontificato il ciambellano della terza Camera per sostenere i suoi argomenti. Può essere vero, ed è legittimo che un giornalista possa offrire al pubblico un’intervista esclusiva per accendere una luce e aiutare a comprendere un fatto criminale. Ma allora (specialmente se si sta nel servizio pubblico) si offrono al pubblico anche strumenti interpretativi che non diano all’intervistato l’enorme vantaggio di parlare dagli schermi televisivi che, come certificano gli scienziati della comunicazione, legittimano di per sé, in gran parte, la veridicità dei contenuti che trasmettono. Si analizza l’intervista e se ne decodificano i messaggi, quelli espliciti e quelli sottintesi, come di ogni “caso clinico” di cui si deve documentare l’anamnesi, la diagnosi e persino la prognosi, se si vuole essere scientifici. Si chiamano a farlo esperti della comunicazione, magari di diverse scuole di pensiero, psicologi, criminologi, sociologi specializzati, si svelano i meccanismi del non detto, si ricostruisce il campo semantico in cui quello che l’intervistato dichiara può essere iscritto, i significati impliciti, le citazioni, le simbologie. Pensare di equilibrare la situazione con gli ospiti che sono stati coinvolti nel salotto di Vespa è stato un errore duplice: un’offesa a tutti gli italiani onesti (e non solo alle vittime della mafia) perché non si possono mettere sullo stesso piano vittime e carnefici; e un vantaggio ancora una volta offerto all’intervistato, contrapposto, nella sua “normalità” rassicurante, al giovane Schifani, irrigidito in una divisa ottocentesca che ancora prima che parlasse lo presentava come “alieno” rispetto ai ragazzi della sua generazione. Che dire poi dell’avvocato dei pentiti, a cui è stata offerta una tribuna pubblicitaria di prima grandezza, che si esprimeva con un codice comunicativo poco distinguibile da quello dei mafiosi, e che era stato chiamato probabilmente per impersonare la “voce della Legge”? Perché è nella zona grigia della società che si può vincere la guerra contro la mafia e il suo ordine simbolico, non tra chi ha già le idee chiare, ma tra chi pensa di non doversi schierare e di potere rimanere neutrale, indifferente, come se la cosa non lo riguardasse. Per questo non è un giudizio moralistico quello da esprimere sull’intervista a Riina jr., ma un giudizio civile, culturale, politico, rispetto ad un crimine possibile, che diventa l’apologia della mafia, se non si rende limpida, inequivocabile, la comunicazione. La “puntata riparatoria” che si preannunzia a “Porta a porta” seguirà probabilmente lo stesso schema. Speriamo che non peggiori la situazione. La presenza di Angelino Alfano non lascia sperare bene in questo senso. Fiorella Falci