San Marino non ha saputo tener testa ai cambiamenti tecnologici e di geografia economica dell’ultimo decennio e rischia più di altri Paesi, vista la sua dimensione, in termini di crescita. E’ dunque giunto il momento di cambiare, di guardare avanti, di misurarsi con gli scenari internazionali. Per questo non basterà cambiare la forma mentis di istituzioni pubbliche e private, occorrerà qualcosa di più: San Marino è arrivato a quella frontiera dove per crescere c’è bisogno anche di fattori esterni. Mi riferisco in particolar modo al settore bancario che più prima che poi dovrà decidersi ad accettare la sfida del cambiamento andando verso quella concentrazione che ha caratterizzato il resto d’Europa. Inutile continuare a stare sul mercato e disperdere valore senza possibilità di migliorare l’efficienza. Meglio sarebbe invece recuperare efficienza e tornare a fare profitti percorrendo la strada delle fusioni avendo come obiettivo finale la creazione di tre gruppi compartecipati al 10/20% da istituti bancari internazionali che trasferendo sulle banche sammarinesi alcuni servizi troverebbero vantaggi anche sotto il profilo fiscale. Ciò darebbe l’opportunità di ricollocare i giovani dipendenti sammarinesi nelle filiali della banche estere partecipanti e sarebbe una sicura occasione di crescita. Il tutto dovrebbe naturalmente avvenire con la regia e il controllo di Banca Centrale. Da tempo infatti il processo di globalizzazione dei mercati dei beni e dei capitali ha fatto sorgere l’esigenza di intermediari finanziari più grandi, più organizzati, più efficienti, più concorrenziali e in grado di rispondere meglio alle spinte competitive ricevute. Il mercato di riferimento del credito è ormai globale ed eventuali aggregazioni che facciano crescere le banche sammarinesi non possono essere frenate dal falso tabù della colonizzazione (che ha per esempio abbagliato le banche tedesche le quali anziché aprirsi ai capitali stranieri sono ricorse, per scongiurare il fallimento, a continue iniezioni di risorse pubbliche). L’Italia invece ha scelto la strada dei capitali stranieri, segno che c’è la voglia dei vertici degli istituti di fare un salto dimensionale per giocare un ruolo importante sul mercato bancario globale. Del resto l’aumento della scala dimensionale e la diversificazione dell’attività sono sempre più importanti nel caso dei servizi bancari e finanziari, a fronte della crescente complessità e concorrenza del contesto operativo. Già lo scorso anno il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan aveva aperto a fusioni e banche italiane ed estere sottolineando che un’aggregazione di questo tipo ‘può essere positiva’ e che il Governo non metterà alcun ostacolo a potenziali investitori stranieri. In questi anni in effetti gli investitori esteri hanno puntato forte sulle banche italiane che sempre più, come nel resto d’Europa, stanno scommettendo sulla concentrazione del settore. Più in generale il numero di istituti presenti nell’Eurozona continua a diminuire. Numeri alla mano ecco la fotografia del settore a ottobre 2015: Germania (1775), Austria (682); Italia (654); Francia (471); Spagna (423); Irlanda (280); Finlandia (217); Paesi Bassi (210); Portogallo (148); Lussemburgo (143); Belgio (100); Lituania (91); Lettonia (61); Cipro (56); Grecia (40); Estonia (38); Malta (29); Slovacchia (27); Slovenia (23). Il consolidamento rappresenta la risposta dell’industria bancaria ai cambiamenti del quadro competitivo e all’accentuarsi della concorrenza, esso nel lungo periodo si tradurrà in un importante ritorno economico: le banche si rafforzeranno, i dipendenti non perderanno il lavoro ma verranno collocati nelle varie società dei tre gruppi, si sbloccherà la liquidità parcheggiata negli istituti e quest’ultima verrà nuovamente trasmessa a imprese e famiglie dando il la alla crescita. E’ questo un argomento molto ampio sul quale mi riservo di tornare in seguito. (Fonte latribuna.sm)
Stefano Ercolani, Presidente di Asset Banca (nella foto)