Cosa vuol dire per lei fare il giornalista oggi?
“Avere una buona dose di autolesionismo. Scherzo, ovviamente, ma non troppo. È un mestiere che richiede lacrime, sangue, fatica, spirito di sacrificio, capacità di intuizione, disponibilità a lavorare da soli o in squadra e soprattutto gratuitamente per molto tempo. Ma resta il mestiere più bello del mondo”.
Cos’è cambiato?
“Tutto, è cambiato. Di uguali sono rimasti certi editori, che si sono messi in testa di ottenere gli stessi risultati dei tempi delle vacche grasse con un numero di giornalisti ridotto alla metà, se non a un terzo di quelli che avevano a disposizione tanto tempo prima, e con mezzi e risorse economiche decisamente inferiori. Ci sono meno risorse e si pretende sempre di più: è chiaro che così non può funzionare, che in nome dell’immediatezza pretesa dai nuovi mezzi di comunicazione e dalle nuove tecnologie si sacrifica la qualità e anche la tasca del giornalista, a tutti i livelli, perché commette un errore storico gravissimo, chi pensa che ci siano ancora sacche di privilegio contrapposte a fette sempre più larghe di precariato. Siamo tutti sempre più sulla stessa barca, una barca che fa acqua da tutte le parti”.
La modernità impone un modo diverso anche nell’affrontare le notizie? Se sì, come?
“La modernità imporrebbe di affrontare le notizie con lo stesso scrupolo e con la coscienza critica di sempre. Invece si tende a essere grossolani, pressappochisti, disinformati. L’importante non è più che la notizia sia vera o verosimile e verificata, ma che si arrivi qualche secondo prima degli altri. Con la conseguenza che spesso ci si ritrova a inseguirsi su fatti che trovano tanti lettori e moltissimi commentatori, e che poi sono magari destinati ad essere smentiti clamorosamente. Se vuoi un esempio, penso alla famosa storia dell’intercettazione fantasma di Crocetta: ancor oggi discutiamo sulla sua esistenza, ma quando uscì l’anticipazione dell’Espresso le massime cariche istituzionali del Paese la diedero per buona e fecero commenti che poi dovettero più o meno rimangiarsi”.
La carta stampata è in declino: secondo lei ci sarà un ritorno al rapporto con il cartaceo o andiamo sempre di più verso un mondo governato dall’online?
“La tecnologia porta da una parte, cioè verso immediatezza, ampiezza e vastità di contenuti multimediali, mentre la qualità dell’informazione richiederebbe altro, la capacità di approfondimento dei giornali di carta traslata sul web. Ma l’informazione libera si regge principalmente sulla capacità di autofinanziarsi: la rete e il suo eccesso di informazione gratuita hanno messo in crisi i giornali, che non raccolgono più pubblicità o quasi, senza che in cambio vi sia alcun reale vantaggio per chi lavora su internet”.
Il rapporto tra risorse economiche ed informazione in Sicilia è la base del condizionamento, toglie o dà libertà alla stampa?
“Ci sono testate coraggiose, in Sicilia, che con pochi mezzi affrontano avventure editoriali difficili da portare avanti e che infatti raramente riescono. Ma se riescono, sono il segno che non è in crisi l’informazione ma chi la governa, e cioè gli editori. Ci sono anche realtà di sfruttamento, in cui i giornalisti non vengono pagati, gli aspiranti pubblicisti sono addirittura ricattati, gli editori impongono condizioni inconcepibili, che però vengono accettate da chi punta ad entrare nella categoria. Bisogna avere il coraggio di dire – e noi lo diciamo da anni, voce di uno che grida nel deserto – che questa non è vera libertà di stampa ma fumo negli occhi. Un’impresa editoriale presuppone il possesso di mezzi notevoli, la volontà di investire e di rischiare. Chi punta invece solo a risparmiare lo fa perché ha perso le risorse – soprattutto quelle pubbliche – che gli avevano consentito di andare avanti bene, in un passato ormai remoto, che non tornerà mai più”.
Informazione e potere, il giornalismo è veramente il quarto potere o oramai il quinto, il sesto…?
“Siamo sempre un potere, ma sempre meno ascoltato perché meno autorevole. L’eccesso di informazione o di pseudo informazione nuoce alla qualità, ormai siamo sempre meno credibili e abbiamo perso la principale fonte del nostro potere. Non siamo più ai piedi del podio, ormai siamo solo tra i primi dieci poteri della società di oggi: siamo stati scalzati innanzitutto dai social network”.
Come si fa ad esercitare un potere rispetto agli accadimenti e riuscire a restarne distaccati a non farsi coinvolgere e diventarne protagonisti?
“Raccontando tutto quello che si vede, raccontandolo sempre, facendo finta di non vedere e non sapere di cosa e di chi si stia scrivendo, in modo da comportarsi costantemente allo stesso modo”.
Non raccontare vuol dire divenire complici. Dove un giornalista si deve fermare, se mai si deve fermare?
“Di fronte alle regole tassative della nostra professione: i minori, la privacy del cittadino qualunque, i confini del diritto di cronaca. Per il resto, più si scrive e meglio è. Spesso la complicità è una favola: gioca molto di più l’incapacità di valutare una notizia e la forza di crederci”.
La nostra è la terra dell’ambivalenza. La mafia dell’antimafia e la stampa. L’informazione dinnanzi alla mafia dell’antimafia, quali sono i termini di questo rapporto?
“L’informazione non si deve appiattire di fronte a qualsiasi fonte, fossero pure Giovanni Falcone e Paolo Borsellino in persona (e magari fosse possibile!). Bisogna avere la capacità di utilizzare con qualsiasi fonte il metodo e il metro del rigore professionale, dell’approfondimento, della verifica scrupolosa di quel che ti viene offerto. Solo così si evita di diventare strumento di giochi di potere che vengono spacciati per difesa della legalità, ai danni di chi vive sul campo per affermare valori e principi sacrosanti e viene delegittimato da chi, in nome degli stessi principi, viene sorpreso a rubare o a crearsi nicchie di potere”.
Quando un giornalista è veramente libero?
“Mai. Solo quando è in grado di capire che deve contemperare i valori della professione con la linea editoriale di chi gli dà il pane: seguire una linea editoriale non vuol dire non essere liberi o autocensurarsi. Il problema vero è che, oltre ai giornalisti liberi, devono o dovrebbero esistere anche gli editori liberi”.
Il nostro mestiere si fa per la gloria, non certo per denaro, pochi i super pagati tutti gli altri precari sottopagati a vita. Il presidente dell’ordine di Sicilia come si pone dinanzi a questo problema?
“Affrontiamo da anni battaglie perse in partenza: quella per ottenere retribuzioni che siano veramente tali per collaboratori e precari oppure quella di evitare che chi vuole iscriversi all’Ordine debba retribuirsi da solo. Siamo tutti bravi, nel nostro lavoro, ad additare gli imprenditori che pagano il pizzo. Ma chi sottostà a certi ricatti, mentendo spudoratamente davanti al Consiglio, si comporta in maniera molto diversa?”.
La legge 150 del 2000, che regola l’informazione e la comunicazione nella pubblica amministrazione trova scarsa applicazione: quale potrebbe essere la via da percorrere per arrivare all’istituzione definitiva degli uffici stampa e non solo negli enti pubblici, come si muove l’ordine in tal senso?
“Forse ci rimane solo da occupare Palazzo d’Orleans, sede della presidenza della Regione. Le abbiamo provate tutte, ma la verità è che la formulazione della legge è ambigua, perché dà la facoltà e non impone alle pubbliche amministrazioni di dotarsi di uffici stampa. E poi c’è una remora di fondo da parte dei politici, che vogliono rimanere liberi di nominarsi i ‘loro’ giornalisti”.
Come risponde a chi vorrebbe abolire gli ordini professionali?
“Che forse ha ragione. Ma prima di proporre l’abolizione, venga almeno un giorno a lavorare dentro un Ordine professionale. Forse cambierebbe idea”.
La battaglia che vorrebbe vincere per la categoria?
“La stabilizzazione dei precari, perlomeno di quelli storici, forme di accesso alla professione più severe, una retribuzione veramente equa per i sottopagati. Sono le basi per costruire un mondo dell’informazione più libero”.
Una vittoria invece ottenuta?
“Un giornalista su dieci oggi in Sicilia denuncia chi lo ricatta. I pubblicisti sono stati equiparati ai professionisti nel rispetto del segreto professionale. I grandi abusivi della professione, da Stefania Petyx a Pino Maniaci, sono oggi dentro l’Ordine: nulla esclude che un giorno, dovessero sbagliare pure loro, vengano puniti o cacciati come tutti gli altri. Ma fino a quel giorno, saranno difesi come sono sempre stati difesi tutti i colleghi: come un sol uomo”.