Teoricamente le nostre sono le vacanze scolastiche più lunghe d’Europa (tre mesi e passa); ma se consideriamo che le pizzate di fine anno scolastico e/o post esami le abbiamo smaltite a fine giugno, che già in luglio è scattata la corsa all’acquisto di libri e cancelleria, che a fine agosto è scattata l’ora degli esami di riparazione, e che negli intervalli, sotto l’ombrellone o sui gruppi in rete, fervevano discussioni sul toto-docenti nelle varie scuole, sulla «buona scuola» e sulla corvée dei compiti delle vacanze che ci trasforma tutti in secondini dei nostri figli («hai finito italiano? quanti problemi ti mancano? perché lasci inglese per ultimo?»), la scuola dura tutto l’anno.
SE È CATTIVA NON È SCUOLA. En passant, quanto mi dà sui nervi, pur non essendo io una gufa, la dicitura «la buona scuola».
Parole come «buono» e «cattivo», parlando di insegnamento, erano già ammuffite ai tempi di De Amicis, ed è una vergogna che si usino ancora nella patria di Maria Montessori, il cui metodo laico e innovativo a base di libertà e responsabilità è venerato in tutto il mondo civile ma, chissa perché, praticamente snobbato in Italia.
«Buona scuola» è un pleonasmo: se è cattiva, semplicemente non è scuola.
I FAMIGERATI PRESIDI-SCERIFFI. È parcheggio per ragazzi, ammortizzatore sociale per laureati in cerca d’autore, integrazione allo stipendio per professionisti, fabbrica di conformismo, di classismo e di umiliazione del merito, ma non luogo di educazione e cultura.
Eppure chiamare «cattiva» la scuola che abbiamo conosciuto fino adesso è ingiusto, pur con tutti i limiti e le carenze di cui anche io mi lamento come genitore, soprattutto se la sedicente «buona scuola» non estirperà sul serio tutte le «cattiverie» di cui sopra (riusciranno a impallinarle i famigerati presidi-sceriffi?).
Una riforma scolastica, noi genitori, vogliamo farla o no?
E una riformuccia scolastica, noi genitori, per quel che ci compete, vogliamo farla o no?
Perché già dal primo giorno di scuola emergono tutte le paranoie, i vizietti e le coazioni masochistiche che agli occhi dei senzafigli ci fanno apparire dei poveri dissociati e scoraggiano la natalità tanto quanto la crisi economica.
Disturbi di cui i social diventano la cassa di risonanza.
FERMATE I PADRI SOCIAL. Come mai tanti genitori di oggi sentono l’obbligo di accompagnare in due il figlio, il primo giorno di scuola, se non per avere una bella scena da raccontare su Facebook o immortalarlo su Instagram e non fare brutta figura con amici e followers (fra cui, ovviamente, i figli stessi)?
I padri social sono anche peggio delle madri, che si limitano a trasferire o, più spesso, a raddoppiare virtualmente su Whatsapp i tradizionali capannelli davanti alla scuola.
La rete ha privato le mamme lavoratrici dell’alibi per disinteressarsi del gossip sulle insegnanti e delle ansie sul potenziale allergenico del menù della mensa.
E le pizzate per iniziare bene l’anno scolastico, le merende per far conoscere meglio i bambini, gli aperitivi post-riunione con le maestre, le festicciole in onore della nuova insegnante di musica?
PROLIFERANO GLI IMPEGNI MONDANI. Le mangrovie di impegni mondani proliferate sul calendario scolastico andrebbero sfoltite – non abolite, se non vogliamo che il Pil scivoli di mezzo punto e molti bar, pasticcerie e pizzerie chiudano i battenti.
C’è un altro rischio: ormai le simpatie più profonde, le amicizie, il cameratismo e perfino gli innamoramenti, anziché nascere in classe tra i figli, fioriscono tra i genitori.
E i ragazzi vanno in apprensione: quando loro cambieranno scuola e compagni, per mamma e papà non sarà un trauma?
Sarà il caso di farsi bocciare in gruppo?
Lia Celi – Lettera43