CALTANISSETTA – Aveva appena finito di parlare, Manfredi Borsellino, in quell’aula del palazzo di giustizia di Palermo: intervento non previsto dal palinsesto delle celebrazioni in memoria di suo padre e della scorta. Quattro minuti di comunicazione autentica, della verità di un dolore che si rinnova ancora oggi, dopo più di vent’anni da via D’Amelio, nel calvario di sua sorella Lucia, che nella palude soffocante di un potere irredimibile ha “portato la croce” di un tentativo di testimoniare l’onestà, la trasparenza, la legalità, soffocato dallo squallore criminale che dalle intercettazioni di cui sta parlando tutta Italia emerge, in ogni caso, senza attenuanti.
Aveva appena finito di parlare, Manfredi. Manfredi come il figlio di Federico II di Svevia che aveva speso la sua vita per difendere l’eredità politica del padre, il sogno di una Sicilia moderna, libera dai privilegi, in cui lo Stato e le sue leggi contavano davvero, e non era la violenza ad identificare il potere.
Aveva appena finito di parlare, Manfredi Borsellino, rompendo un silenzio durato più di vent’anni, e ha spiegato con poche parole, pensate, pesanti, dette con la stessa voce serrata e carica di passione civile di suo padre, il senso vero di quello che sta accadendo in Sicilia, al di là delle indagini, delle verità giudiziarie, delle intercettazioni. La verità di un sistema in cui ci sono uomini di potere che pensano di poter “fare fuori”, come Paolo Borsellino, chi intralcia i loro piani. Fosse pure quella stessa figlia, “la primogenita, quella con cui mio padre dialogava, anche solo con lo sguardo”, ha scandito Manfredi, ricostruendo in questa memoria personale il senso profondo di una tradizione e di una formazione alla legalità come onestà intellettuale autentica. Insofferente per questo all’antimafia-spettacolo. E dolorante ancora, dopo più di vent’anni, per il sospetto tragico che anche nel cuore dello Stato si annidassero i traditori di suo padre.
Aveva appena finito di parlare, Manfredi Borsellino, e il Presidente della Repubblica si è alzato in piedi, da solo, staccandosi dal parterre delle autorità che affollavano la platea che applaudiva. Gli è andato incontro e lo abbracciato, con una forza che le immagini di quel momento ci consegnano con il pathos di una speranza che può vivere ancora, in Sicilia.
Non soltanto perché un abbraccio così, solo un padre può darlo al proprio figlio e solo un figlio può darlo al proprio padre. Non soltanto perché la forza di quell’abbraccio viene dalla condivisione della stessa sofferenza nella propria vita. Un dolore che genera la conoscenza della verità, come pensavano i Greci delle loro tragedie.
Sembrava uscire dal suo stesso corpo, il Capo dello Stato, mentre stringeva a sé quel giovane servitore dello Stato che aveva appena saputo denudare lo squallore dello Stato senza delegittimarlo ma senza tacere la verità, con lo stesso coraggio disarmato, con lo stesso sguardo dilatato dall’orrore e lo stesso profilo tagliente di suo padre.
Si sono stretti l’uno all’altro senza riserve, in un affidamento reciproco e totale, due generazioni di uomini dello Stato, due generazioni di siciliani onesti, società civile e istituzioni finalmente senza riserve, senza ipocrisie.
Quell’abbraccio è una speranza anche per ognuno di noi. La speranza che lo Stato possa esistere davvero per tutti, per la giustizia e per la verità. In Sicilia e in Italia. Senza compromessi con i poteri occulti e senza “trattative” per gli equilibri dei reciproci privilegi. Senza scegliere gli amici, anche se discussi, invece di difendere la legalità senza riserve, non solo sulle passerelle mediatiche.
Grazie Presidente Mattarella. Per la forza di questa testimonianza. Senza parole di troppo, com’è nel suo stile. Ma ci regala la possibilità di credere ancora nella civiltà democratica in cui viviamo, che troppo spesso tanti uomini del potere hanno cancellato dalla nostra coscienza.
Fiorella Falci
L’abbraccio della speranza: grazie Presidente
Dom, 19/07/2015 - 00:36
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