Da sabato scorso, quando Manfredi Borsellino ha alzato la botola e ha mostrato i vermi dell’antimafia siciliana, nessuno potrà dire: io non sapevo. Perché il figlio di Paolo ha pronunciato la sua requisitoria davanti al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e ha raccontato per filo e per segno il calvario patito dalla sorella Lucia costretta alle dimissioni non dalla mafia ma dalle malefatte di una confraternita di avventurieri – una cosca, stavo per dire – che per anni ha turlupinato la Sicilia spacciandosi, addirittura, come “presidio di rivoluzione e di legalità”.
Lucia alla “rivoluzione” di Rosario Crocetta ci aveva creduto. E aveva persino accettato l’incarico di assessore regionale alla Sanità, convinta – ha sostenuto il fratello – di potere dare “trasparenza e felicità” a una palude che nei gli anni di Totò Cuffaro e poi di Raffaele Lombardo aveva consentito ogni sorta di abuso e spavalderia. Ma il sogno, come si dice, è durato lo spazio di un mattino. Perché dopo meno di tre anni la figlia di Paolo Borsellino, il giudice ammazzato in via D’Amelio, ha dovuto prendere atto che l’antimafia dei pennacchi e delle carriere aveva costruito, attorno alla sacralità di un nome segnato dal martirio, un’altra delle sue imposture. E ha mollato. Con una lettera che, per le cose dette e denunciate, avrebbe dovuto provocare un terremoto; e invece è precipitata nel “silenzio sordo delle istituzioni”, assorbita come un bicchiere d’acqua da Crocetta e dal suo circo dei miracoli; e ingoiata in un solo boccone dal Pd siciliano, preoccupato di trovare subito un proprio uomo al quale assegnare la guida dell’assessorato e la gestione dei nove miliardi che in quelle stanze annualmente si amministrano.
Povera Lucia. Temeva di essere accerchiata da boss e picciotti, da estortori e corruttori; e si è ritrovata invece attorniata da una cerchia di piritolli ben pasciuti e incravattati che, con la buttanissima scusa di una “rivoluzione fatta nel nome dell’antimafia e della legalità”, non faceva altro che tramare, giorno dopo giorno, per strapparle potere e privilegi, incarichi e prebende, nomine e miliardi. Povera Lucia. Chissà quale pena e quale sdegno avrà provato in questi giorni nel leggere le intercettazioni nelle quali si appalesano quelle trame, nelle quali si rivelano gli insulti (“quella buttana della Borsellino”) e nelle quali si dipinge in maniera nitida una indecente consorteria tra gli affaristi di un ospedale palermitano e l’uomo che, nelle sue aspettative di figlia di Paolo, avrebbe dovuto incarnare il mito della rivoluzione e della lotta alla mafia, cioè Rosario Crocetta.
Un gran mattatore venuto da Gela, questo Crocetta. Che, avendo tra le sue molteplici qualità una spiccata tendenza all’istrionismo, ha pensato bene nell’ottobre del 2012 di candidarsi al posto che era stato di Cuffaro e Lombardo, spazzati via da due pesanti inchieste per mafia, girando in lungo e in largo la Sicilia sul cavalluccio a dondolo dell’antimafia. Eppure non sarebbe stato difficile, fin da allora, sospettare che l’operazione antimafia tentata dall’ex sindaco di Gela potesse avere anche una componente di bluff: primo, perché il suo cavalluccio veniva portato a spalla dagli stessi uomini, come Giuseppe Lumia e Totò Cardinale, che avevano accompagnato fino alle voragini giudiziarie il carro di Raffaele Lombardo; secondo, perché il nuovo Governatore mostrava urbi et orbi un curriculum improbabile, per non dire giullaresco: rivendicava il merito di avere allontanato dal comune di Gela ottocento venticinque mafiosi, né uno di più né uno di meno. Pure un bambino dell’asilo avrebbe capito che ci si trovava di fronte a una colossale minchiata, ovviamente priva di qualsiasi legame con la realtà giudiziaria di quella modesta città di provincia. Ma di fronte a una “icona dell’antimafia”, sebbene ancora in via di costruzione, è stato difficile trovare qualcuno, giornalista o uomo politico o semplice uomo di strada, disposto a gridargli in faccia che le cifre esibite altro non erano che un azzardo, distribuito a un uditorio che non aveva alcuna possibilità di riscontro. E Rosario Crocetta ha avuto così la sua consacrazione, applaudito e osannato da tutti i talk show, Massimo Giletti in testa, e dai più autorevoli santoni dell’opinione pubblica: in fondo, che si voleva di più? Al reprobo don Raffaele, portatore sano dei più infamanti traccheggi di mafia, subentrava un angelo dell’antimafia, un San Michele arcangelo sceso dal cielo per ripulire con la sua spada di fuoco la terra delle coppole e dei diavoli.
Il temerario giochino dell’antimafia dura e pura è andato avanti per alcuni mesi. Giusto il tempo perché prendessero posto, accanto al nuovo Governatore, i commensali di sempre: quelli del vecchio sicilianismo, quelli del vecchio clientelismo, quelli dei vecchi affari. E soprattutto quella falange di aspiranti eroi sempre alla ricerca di un palcoscenico sul quale recitare l’eterno copione della lotta del bene contro il male. Primo fra tutti Antonio Ingroia, il pm che aveva già trasformato Massimo Ciancimino in una “icona dell’antimafia” e che dopo il fallimento della sua candidatura alle politiche, con conseguente abbandono della magistratura, era alla ricerca di un posticino di sottogoverno per passare indenne la nottata. Crocetta non poteva farselo sfuggire, aveva a portata di mano un uomo che, durante la sua scintillante carriera di pubblico ministero, aveva mostrato capacità eccezionali: con l’inchiesta sulla fantomatica trattativa tra lo stato e i boss di Cosa Nostra, aveva saputo costruire un’antimafia con gli effetti speciali, il cui marketing aveva tanto brillato negli studi televisivi di Michele Santoro e negli articoli di Marco Travaglio. Proprio un uomo di talento, questo Ingroia: come dimenticare il coraggio mostrato nella sfida contro Giorgio Napolitano, quasi a significare che se sei un principe dell’antimafia non c’è ostacolo che tu non possa superare?
Sistemato al vertice di una tra le più disastrate società della Regione, Ingroia entra di diritto nel cerchio magico del Governatore. Dove si ritrova, manco a dirlo, il fior fiore di collaboratori e dirigenti che avevano fatto da supporto alle giunte di Cuffaro e Lombardo. Ma non c’è da preoccuparsi: l’antimafia di Crocetta avrebbe riciclato pure quella manciata di gentiluomini. Ai quali, oltre alla lotta alla mafia, interessano parecchio i bocconcini di potere che il Presidente distribuisce ai fedelissimi, spesso su suggerimento di Patrizia Monterosso, segretario generale di palazzo d’Orleans ma soprattutto grande sacerdotessa del cerchio magico . E guai a chi non dovesse stare al gioco: non si spiegherebbe altrimenti perché Crocetta, abbia cambiato in 32 mesi 37 assessori. E non si capirebbe nemmeno come mai il deficit della Regione abbia superato gli otto miliardi, senza che in questi tre anni sia stata varata una sola legge di riforma o un qualunque provvedimento destinato a risollevare la Sicilia dal suo disastro. Solo stipendi. E soprattutto nomine: di assessori, di segretari, di capi di gabinetto, di manager, di commissari, di amministratori, di sindaci e revisori dei conti. Un gioco, quello delle nomine, nel quale si sono prevalentemente esercitati Crocetta e i suoi tre governi. Un gioco nel quale, nonostante i continui e richiami all’antimafia e alla legalità, hanno trovato spazio marpioni e millantatori di ogni risma, scribi e farisei di ogni contrada.
Le intercettazioni, quelle vere, pubblicate in questi giorni, rivelano un mondo tragico e miserabile. Dove Matteo Tutino, altro uomo del cerchio magico, medico personale di Crocetta e primario di chirurgia plastica a Villa Sofia, prima di finire agli arresti domiciliari con l’accusa di truffa, falso, abuso d’ufficio e peculato, stila organigrammi di medici e faccendieri da sottoporre all’approvazione del fraternissimo amico Governatore. E lo fa con i suoi comparucci della parrocchietta, magari dopo avere chiesto qualche consiglio all’amico Antonio, ma quasi sempre con il preciso intendo di scavalcare “quella buttana della Borsellino” e accaparrarsi una fetta grande e ricca della Sanità siciliana.
Povera Lucia, quanto fiele ha dovuto inghiottire. Il padre – ha ricordato l’altro ieri Manfredi, aprendo davanti a Mattarella il verminaio siciliano – è stato ucciso dalla mafia. Lei, ventitré anni dopo, ha dovuto portare la croce di un maleodorante clima di ostilità. Un calvario costruito per lei nel baraccone di quell’antimafia da operetta con la quale il presidente venuto da Gela ha pensato di redimere, per quasi tre anni, i peccati suoi e di tutti i gaglioffi che gli sono girati attorno.
(Giuseppe Sottile – Il Foglio)