L’ultimo aggiornamento del rapporto sui Cie (approvato della commissione nel settembre scorso) è di pochi giorni fa. E chiarisce ulteriormente che le categorie del “buonismo” o del “cattivismo” sono del tutto inadeguate. I numeri, infatti, dicono semplicemente che i Centri di identificazione ed espulsione sono inefficaci. E che il problema va affrontato con razionalità. Senza pregiudizi ideologici e tenendo alla larga le esigenze della propaganda politica.
Su un totale di undici, attualmente ne funzionano cinque (Bari, Caltanissetta, Roma, Torino e Trapani) e – dato aggiornato allo scorso 20 febbraio) ospitano 293 cittadini stranieri a fronte di una capienza di 753 posti. Quanti dei reclusi saranno effettivamente espulsi? Se prendiamo i dati degli anni precedenti, scopriamo che nel 2014 sono transitati nei Cie 4986 stranieri dei quali 2771 sono stati effettivamente rimpatriati e, nel 2013, su 6016 transitati, i rimpatriati sono stati 2749. Il “tasso di efficacia” (cioè il rapporto tra quanti sono entrati nel Cie perché considerati in condizione di irregolarità e quanti effettivamente sono stati rimpatriati) è del 50 per cento. Ma se confrontiamo il numero dei rimpatriati col numero degli irregolari effettivamente presenti in Italia, il “tasso di efficacia” diventa irrisorio. Nel 2013, a fronte di 294mila “irregolari”, appena lo 0,9 per cento è stato rimpatriato attraverso i Cie.
Interessante notare che questo “tasso di efficacia” non cambiò in alcun modo quando, nel 2011, il tempo di trattenimento passò da 30 a 180 giorni. Una decisione annunciata con le fanfare del “cattivismo” per dimostrare che si faceva sul serio e che determinò solo un aumento esponenziale dei costi. Proprio quell’anno, infatti, il “tasso di efficacia” crollò allo 0,3 per cento. D’altra parte la commissione d’inchiesta – attraverso gli uffici immigrazione delle questure – ha accertato che mediamente per arrivare all’identificazione sono sufficienti 45 giorni. E anche a partire da questa constatazione – nell’ottobre del 2014 i senatori Luigi Manconi (che è anche il presidente della commissione Diritti umani) e Sergio Lo Giudice hanno presentato e ottenuto l’approvazione dell’emendamento che ha dimezzato (da 180 a 90 giorni) il periodo massimo di trattenimento.
I Centri “di espulsione” espellono pochissimo. E le persone che vi finiscono dentro hanno storie tra loro molto diverse. Perché le situazioni di “irregolarità” hanno svariate cause. All’interno dei Cie ci sono ex detenuti che hanno finito di scontare la pena e che passano direttamente dal carcere al Centro di identificazione prima di essere espulsi. Ma ci sono anche immigrati che risiedono da anni in Italia e non hanno potuto rinnovare il permesso di soggiorno in seguito alla perdita del lavoro.
Affermare che i Cie sono inutili non significa ovviamente sostenere che le espulsioni, quando la legge lo richiede, non debbano essere praticate. Significa prevedere meccanismi che consentano di farlo in modo più semplice. Alcuni sono già previsti e si tratta solo di renderli operativi. Nel caso di quanti sono destinati all’espulsione dopo aver scontato una pena detentiva, per esempio, esiste dal 2013 un decreto del ministro Cancellieri che prevede che l’identificazione avvenga presso gli istituti penitenziari. Applicarlo eliminerebbe il transito nei Cie degli ex detenuti (che di fatto patiscono un prolungamento della condanna) e la loro convivenza con stranieri che hanno commesso il solo “reato” di aver perso il lavoro o di essere rimasti in Italia dopo la scadenza del visto.
La casistica delle persone che è possibile incontrare nei Cie è molto ampia. Ci sono anche giovani stranieri che hanno sempre vissuto in Italia e che, al compimento dei 18 anni, non hanno potuto iscriversi a un corso di studi o firmare un contratto di lavoro. In base alla normativa attuale si trovano così in una condizione di ‘irregolarità’ che li porta all’interno dei Cie. Raramente vengono espulsi, perché nel frattempo intervengono i familiari e gli avvocati. Ma vi transitato, ci restano per mesi, con ulteriori costi per lo Stato. Costi che vengono aggravati dalle spese sanitarie. Chi si trova improvvisamente recluso in un luogo che ha tutto l’aspetto di un carcere (e infatti ci sono anche ex detenuti) vive situazioni drammatiche sul piano psicologico e fisico. Non è un caso che nei Cie si faccia un grandissimo uso (e abuso) di psicofarmaci.
In definitiva, sostiene il rapporto della Commissione diritti umani, se si escludono i casi delle persone effettivamente pericolose, ci sono molti altri strumenti diversi dai Cie, meno costosi, meno disumani, per affrontare i casi di irregolarità: “Basterebbe un obbligo di firma o di dimora, vincoli e limiti ai movimenti per verificare che lo straniero irregolare sia reperibile dalla forze di polizia (misure peraltro già previste ma raramente applicate). E così i Cie sarebbero ridotti a pochi locali necessari a ospitare per qualche notte chi sia in attesa di un rimpatrio ormai esecutivo”.
Secondo un’articolata ricerca dell’Associazione Lunaria56 – i cui dati sono stati recepiti nel rapporto del Senato – dal 2005 al 2011 lo Stato ha impegnato in media 143,8 milioni di euro l’anno per gestire, mantenere e ristrutturare l’insieme dei vari centri. Se poi si va ad analizzare la gestione fatta da alcuni degli enti gestori si apre un ulteriore, spesso inquietante, capitolo della triste storia dei Cie italiani.