Giuseppe Pignatone è un signore poco appariscente, lontano dalle telecamere e dai riflettori, fisionomia antieroica e sguardo mite, ma capacità di ragionamento affilata sui fatti e determinazione inflessibile nel trarne le conseguenze giudiziarie. Senza cercare lo scoop, il colpo di scena. Senza intrupparsi nelle “comitive della legalità”, mediatiche e ambivalenti, in cui qualche volta guardie e ladri si scambiano i ruoli.
E’ nato a Caltanissetta 65 anni fa, in quella generazione cresciuta con la ricostruzione del Paese in una Sicilia che cambiava vorticosamente nel vento nuovo della democrazia e della politica. Suo padre Francesco, il più giovane deputato del Parlamento italiano nel 1948, cattolico solare e pugnace, capace di giocarsi il futuro politico per inseguire il sogno dell’Autonomia radicale, uscire dalla DC e sostenere il Governo Milazzo, fondare un partito nuovo, i Cristiano Sociali, portatori di un’idea di politica, di un progetto alternativo per le istituzioni regionali.
Pignatone figlio ha lavorato sodo per tutta la vita: in magistratura da 40 anni, poche parole e molte inchieste importanti, di quelle che per qualcun altro possono valere la Presidenza del Senato. Ha incriminato Vito Ciancimino, Totò Cuffaro, ha coordinato le indagini che hanno portato all’arresto di Bernardo Provenzano. A Reggio Calabria ha incriminato il presidente della Regione, Scopelliti (condannato a 6 anni di reclusione) e fatto sciogliere per mafia il comune di Reggio.
La ‘ndrangheta gli ha fatto trovare un bazooka davanti l’ufficio, e lui ha coordinato, per la prima volta, le indagini con 300 arresti in Calabria e a Milano, dimostrando il legame tra la criminalità calabrese e le istituzioni della regione più ricca d’Italia, rivelando scenari inediti, equilibri più avanzati e imprevedibili nell’insediamento criminale.
Come quando ha individuato in Romania, nella più grande discarica di rifiuti d’Europa, una struttura di riciclaggio di 115 milioni di euro provenienti dal tesoro ancora sommerso di Vito Ciancimino. O come quando ha disegnato la mappa mondiale degli insediamenti ‘ndranghetisti in Svizzera e in Germania, in Canada e in Australia.
E anche su Roma, nell’inchiesta di oggi, ha scompigliato i luoghi comuni anche giudiziari delle analisi consolidate sulla criminalità mafiosa. Non ha avuto bisogno dei cadaveri e dei kalashnikov per individuare nel legame tra grandi affari, intimidazione criminale e complicità col potere politico i connotati fondamentali, antropologici, del sistema mafioso, che nella capitale ha scelto di non controllare il territorio, ma solamente tutti i grandi affari con la pubblica amministrazione, le forniture, le consulenze, la gestione delle aziende partecipate. E ha incriminato l’ex sindaco Alemanno con il 416 bis.
Spiegando anche, come ha fatto nella seduta con la Commissione Antimafia, ragionando con pacata lucidità, come a Roma convergano mafie diverse e lottizzate, “laicamente” interfacciate con la Banda della Magliana, capaci di articolare le iniziative e le relazioni criminali e di condizionare i poteri con la forza pervasiva del denaro, valore assoluto, valore identitario, fondativo dell’etica dell’individualismo speculativo.
Tutto questo senza squilli di tromba mediatici, senza frasi ad effetto, ma coniugando con serietà rigorosa competenza giuridica e intelligenza sociale, nella riservatezza più totale, e senza frequentare salotti alla moda.
“È una persona che non gioca, questo butta all’aria Roma, ha cappottato tutta la Calabria” così aveva detto Carminati, il capobanda di Roma, commentando la sua nomina a Procuratore della Repubblica, in quell’ufficio che un tempo si chiamava “il porto delle nebbie”, dove scomparivano puntualmente i fascicoli scottanti sugli scandali e i misteri del potere politico italiano.
Ricorda lo stile di Gaetano Costa, un altro magistrato nisseno di cui non gli auguriamo però di condividere la fine tragica, che non aveva mai rilasciato un’intervista in vita sua, ma era stato capace di incriminare persino il Governatore della Banca d’Italia.
Pignatone ha conosciuto Costa, ha lavorato con lui sia a Caltanissetta che a Palermo, e averlo visto morire da solo sotto il piombo mafioso non lo ha portato a fare il magistrato accomodante, o almeno mediatico, “tutto chiacchiere e distintivo”.
E’ con loro che vorremo augurare buon anno ai nisseni.
Augurando di saper essere nisseni come loro nell’anno che verrà, ognuno al suo posto, piccolo o grande, facendo il proprio dovere ad occhi aperti, senza evitare le proprie responsabilità, senza pensare che tocchi a qualcun altro togliere le castagne dal fuoco, o “esporsi”.
Il nisseno mediamente qualunquista, mediamente accidioso e sarcastico, autoflagellante e lamentatore, rassegnato all’annientamento, purchè sia impercettibile e indolore, si trova smentito senza scampo da questo magistrato tenace e ragionatore, riservato e competente, che sta portando sui giornali di tutto il mondo il nome di Caltanissetta con onore inaspettato.
Forse non saremmo sempre gli ultimi nelle classifiche di tutti i tipi se tutti noi diventassimo capaci di vivere così, con la dignità di chi sta facendo del suo meglio sempre, senza paura e senza vanità, capace di “essere” e non soltanto di apparire.
Grazie Procuratore Pignatone, orgoglio nisseno di una città che Lei ha dimostrato ancora viva, anche se lontana da se stessa.
La scommessa del 2015 è essere nisseni svegli qui, ogni giorno, senza l’eccezionalità dell’emergenza e la retorica della decadenza inarrestabile, alibi consolatorio per i filosofi da bar.
Senza barare, facendo finta di essere quello che non si è. Perché la legalità non è un “brand” del marketing della politica, ma è l’onesta profonda e rigorosa di chi costruisce la giustizia tutti i giorni, senza compromessi, spendendo tutte le proprie energie senza chiedersi prima “cosa ci guadagno?” ma sapendo testimoniare ai propri figli come si può vivere senza superbia, e senza vergogna.
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Non conoscevo il dott. Pignatone.
GRAZIE