Paradossalmente, la classe di governo espressione di questa terra, invece di fare gli interessi dei suoi territori e della sua gente, da sempre, storicamente, vi è stata spesso ostile; quando non proprio nemica. E’ quello che si verificò anche nella tragica pagina di storia del massacro dei Fasci siciliani dei lavoratori, che quest’anno ricorda il suo 120° anniversario.
Dopo l’intensificarsi, tra il 1892-93, delle agitazioni dei Fasci dei lavoratori in Sicilia, nel gennaio 1894, – sotto l’appena insediato governo del riberese Francesco Crispi – veniva proclamato lo Stato d’assedio, con incarico al gen. Morra di Lavriano di sedare ogni rivolta nell’isola e dare corso agli arresti dei capi del movimento in tutte le province. Dal provvedimento veniva ovviamente coinvolta anche la provincia di Caltanissetta, dove numerosi erano i focolai. Tra i primi paesi ad essere colpiti Butera e Santa Caterina Villarmosa, dove particolarmente presente era il movimento. In molti comuni la gente continuava a manifestare per le vie, chiedendo l’abbassamento delle tasse al grido, addirittura, di “Viva il re!”. Era il segno che si trattava di manifestazioni pacifiche e non violente; come volevano invece far credere taluni settori conservatori dell’isola. Manifestazioni si registravano, nei primissimi giorni di gennaio, a Resuttano e Vallelunga, mentre l’on. Napoleone Colajanni cercava di invitare tutti alla calma, inviando telegrammi ai maggiori dirigenti del movimento. Ma, nei giorni successivi, gli eventi, purtroppo, sarebbero precipitati e sfociati, in molti casi, nel sangue. Gravi fatti si erano verificati a Milocca (odierna Milena), con la rivolta delle donne – di cui ha recentemente scritto il prof. Antonio Vitellaro, per fortuna senza vittime – e, soprattutto, a Santa Caterina Villarmosa, con il tragico epilogo della morte, sotto le armi delle truppe regie, di 13 manifestanti; mentre nell’isola continuavano a giungere soldati. Altri massacri avvenivano in vari paesi della Sicilia: Caltavuturo, Giardinello, Marineo ecc. dove inermi manifestanti cadevano sotto il piombo delle truppe del regio esercito.
Nella fase immediatamente precedente, mentre Crispi prendeva il posto di Giolitti alla guida del governo, aveva offerto proprio al Colajanni il ministero dell’agricoltura, che questi però, fedele alle sue idee repubblicane, aveva rifiutato per non far parte di un esecutivo monarchico. Tuttavia, forte di quella richiesta – che era pur sempre un’attestazione di stima – Crispi lo aveva chiamato a colloquio, puntando su di lui per un compromesso pacifico tra capi del movimento dei fascianti e autorità. Colajanni si convinceva della buona fede del neo presidente del consiglio ed accettava la missione. D’altronde, aveva pensato, con Crispi in fondo, vi erano anche degli elementi in comune: entrambi erano siciliani, ed entrambi provenivano dalla stessa tradizione repubblicana e garibaldina. Ma, proprio su quelle sue convinzioni il Colajanni, da lì a poco, si sarebbe sentito tradito dal Crispi. Quest’ultimo, infatti, repentinamente, aveva decretato lo Stato d’assedio in Sicilia, senza che il primo avesse neanche il tempo di compiere la sua azione mediatrice.
Su ordine governativo partivano per la Sicilia ben 500mila soldati, pronti a sparare sui manifestanti. L’on. Colajanni in seguito avrebbe resa pubblica tutta la sua indignazione nei confronti del riberese, in vari discorsi parlamentari, articoli di stampa e libri come Consule Crispi, parlando apertamente di “pugnalata alla democrazia”.
Paradossale circostanza che, mentre le truppe regie si preparavano alla sanguinaria repressione – che si sarebbe conclusa con lo scioglimento definitivo dei Fasci – i manifestanti continuavano a percorrere, come riportavano univocamente gli inviati della stampa del tempo, le strade di paesi e città, con cortei pacifici, aperti dai ritratti dei sovrani e le immagini del Crocifisso ed aspettandosi non pallottole, ma seri provvedimenti governativi, come più volte aveva suggerito lo stesso Colajanni. Quegli atti, infatti, si rendevano necessari – in quella precisa fase – contro uno stato di profonda miseria delle popolazioni, che avevano confidato nell’opera energica e provvidenziale del conterraneo Crispi. D’altronde, non erano mancate manifestazioni in cui veniva gridato, oltre che “Viva il re!”, “Viva la regina!”, anche “Viva Ciccio Crispi!”.
Per quel che riguardava il nostro territorio, truppe di rinforzi giungevano a Caltanissetta il 7 gennaio. Nel frattempo manifestazioni si erano registrate a Niscemi, con il conseguente scioglimento del movimento guidato dal Crescimone, del quale, anche in questo caso, un inviato della stampa scriveva: “Abbiam visto che non è contro il governo che il popolo irrompe, bensì contro le amministrazioni locali le quali in breve volgere di anni han rimandato ai borbonici tempi”.
Dai provvedimenti di scioglimento, oltre a Niscemi, uno dei primi fasci del nisseno ad essere soppressi era quello di Riesi. Qui, in quei giorni era arrivato un plotone di soldati del 20° reggimento fanteria, provvedendo al sequestro di documenti e allo scioglimento del movimento. Stessa sorte toccava, il 13, al fascio di Mazzarino, dove era arrivata una compagnia del 47° reggimento. Il 18 era toccato anche a quello di Terranova (Gela), dove finivano in carcere vari esponenti del movimento e tra essi il presidente del fascio locale Aldisio Sammito. Analoga cosa veniva fatta, nella notte tra il 21 e il 22, a Mussomeli con l’arresto di molti componenti del locale fascio – e tra questi la sua guida, il dott. Cataldo Lima, – mentre altri si davano alla latitanza. Il 23, arresti si registravano anche a Riesi, Santa Caterina Villarmosa e Marianopoli, con sequestri di documenti, bandiere ed altro.
Intanto, proseguivano ovunque le operazioni di disarmo delle popolazioni. Per fare qualche esempio, nel solo paese di Vallelunga venivano sequestrati 156 fucili e 25 rivoltelle, oltre 500 le armi di vario genere sequestrate a Riesi. Analoghi disarmi, ma senza arresti, avevano luogo anche a Sommatino, Sutera, Montedoro e Bompensiere.
Aperta rimaneva la grave ferita degli ingiustificati massacri perpetrati in vari paesi della Sicilia nei confronti delle inermi popolazioni; e tra questi quello di Santa Caterina Villarmosa. Qui il paese, dopo l’eccidio del 5 gennaio, rimaneva – forse temendo qualche reazione popolare – sotto lo stretto controllo delle autorità militari. L’1 febbraio, mentre i circa 200 soldati del 27° fanteria lasciavano il piccolo centro, un altro centinaio ne giungevano a dare il cambio, provenienti da Castrogiovanni (Enna); mentre tutto, lentamente, ritornava alla normalità.
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È la nostra storia! Bisognerebbe che tutti noi celebrassimo ogni anno la ricorrenza dell'eccidio nei nostri Comuni in onore e memoria di chi ha provato a ribellersi alle condizioni precarie che hanno sempre caratterizzato, purtroppo, la nostra terra. Da una decina di anni, abbiamo a Santa Caterina una stele in ricordo della strage; credo che molti non sappiano di cosa si tratta! Rendiamo onore ai nostri antenati! Recuperiamo lo spirito di giustizia e solidarietà! Rialziamo la testa e svegliamoci dal torpore!