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Poesia in divisa. L’amore declinato con “Passo Svelto”

Redazione

Poesia in divisa. L’amore declinato con “Passo Svelto”

Mer, 05/11/2014 - 19:33

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MARILINA

Marilina Giaquinta

Versi secchi, senza rime. Affannose sequenze verbali, montate come immagini che raccontano la natura inquieta dei sentimenti. Soprattutto l’amore e le sue contraddizioni, il tempo, l’esistenza. Le poesie di Marilina Giaquinta, poliziotta di professione (dirigente della Polizia di Stato presso la Questura etnea), catanese con un trascorso tutto nisseno, danno conto di un interessante e non scontato lavoro artigianale sulle parole. Parole d’amore: quello che, coi suoi passi svelti, forse troppo svelti, dovrebbe scandire il tempo della vita; e che invece scappa via senza un senso, senza ordine. L’autrice – questa silloge edita da Le Farfalle di Angelo Scandurra rappresenta il suo debutto letterario – esprime la complessità del tema attraverso un esperimento di scrittura ironica e irrequieta, che privilegia la sonorità dei sostantivi, degli aggettivi e delle forme verbali. Non manca l’omaggio alla sua terra, nell’impasto raffinato di parole che non disdegna di utilizzare – qua e là, ma senza esagerazioni – vocaboli dialettali. Insomma, sembra proprio la lingua il senso della verità sconclusionata dell’amore. E nel parlare d’amore, e di poesia, Marilina parla innanzitutto di se stessa. E racconta ai lettori del Fatto Nisseno il periodo trascorso a Caltanissetta alla fine degli anni Ottanta. “Fui aggregata presso la questura nissena – dice – perché in quegli anni si celebrarono i maxi processi per la strage di Pizzolungo (attentato al giudice Carlo Palermo) e per l’assassinio del giudice Ciaccio Montalto. Mi occupavo dei servizi di ordine pubblico predisposti presso il palazzo di giustizia. Caltanissetta – continua – era una parte della Sicilia a me ancora sconosciuta. Ho incontrato persone che
ancora mi porto nella memoria del cuore. Nel tempo libero giravo per la campagna, per cogliere a pieno sguardo le ondulazioni citrine di un paesaggio scabro e solitario che non mi era uso, io nata e vissuta con il mare d’intorno. Ricordo che di fronte al palazzo di giustizia c’era la libreria Sciascia, dove compravo tutti i miei libri e dove mi piaceva trattenermi a parlare di letteratura, scambiare gusti e impressioni”. Nissa ha fama di città noiosa. Dica la verità, si è annoiata anche lei? “No, non mi sono annoiata, io ero in continua esplorazione. Avevo una specie di curiosità bambina: gli accenti, il dialetto, i dolci, le abitudini, tutto diverso ed io mai sazia di cogliere ogni aspetto di questa differenza. Ricordo storie sulle miniere, di fatica innocente e dannata. I ricordi hanno sempre un colore quando cerchi di rivederli”. E che colore è Caltanissetta? “È il giallo arenario della sua pietra, è il colore profumato delle paste dei suoi bar, il rosso concitato delle
chiacchiere per strada, il grigio della strada dritta e uguale che correva la mattina da Catania, è il bianco della neve di dicembre che erano anni che non cadeva, e il silenzio azzurro della sera che scende
quieta e addormenta. Bei ricordi”. A proposito di noia, che cos’è per lei? “Forse la rinuncia alla conoscenza delle cose, una supponente sazietà di aver tutto veduto e tutto vissuto. Ma chi sa di non sapere non si annoia mai, è avido di conoscenza di luoghi, di persone, di cose, di sensazioni, di idee, di scoperte,
insomma di vita e di tempo. Di quello si ha gran conto nelle piccole realtà”. Perché? “Perché nelle città dell’uomo c’è sempre tempo: per bere un caffè e ritrovare l’amico perduto, per chiedere e sapere dei
fatti accaduti mentre non c’eravamo, per far visita e condividere il dolore di un lutto, per sfidare in una partita cruciale la squadra del cuore, per far brindisi in rima seduti ad una tavola dove si sta
stretti e uniti, per comprare la spesa e scambiarsi i saluti ai figlioli che sono andati via, per vivere senza la fretta dello sfaccendio del giorno. Ho sentito che nelle metropoli come Parigi o New York si sceglie la casa dove abitare in base a quello che offre il quartiere e le sue botteghe e alla tranquillità del posto. In fondo,
le metropoli sono uno strano, infinito, concentrico insieme di paesi che si includono l’un l’altro”. Ma cos’è per lei il tempo? “Un orizzonte, come quello del mare: ogni volta che sembra vicino, si allontana sempre di più e non riesci a raggiungerlo. Eppure senza orizzonte non ci sarebbe il mare. Il tempo della vita è l’orizzonte del mare: non bisogna inseguirlo, ma navigarci dentro, cercando di scampare, in qualche modo”.
Torniamo all’amore. La provincia ne facilita o ne ostacola l’esplosione?  “Pare che l’amore soffra della stessa sorte della poesia: mi sento ripetere che a nessuno interessa la poesia, che nessuno più la legge e che nessuno più la vuole. Come l’amore. Sentimento che somiglia tanto a quegli esseri mitologici di cui tutti narrano ma che nessuno ha mai visto e nessuno sa come sono fatti. E invece vedo ogni
giorno di più (anche dai commenti che giungono sul mio libro) che l’amore è la leva di Archimede che solleva il mondo”. L’amore per la poesia influenza il suo lavoro di poliziotta? “Non so. Posso dire cosa hanno detto gli altri dopo aver letto le mie poesie: si sono stupiti – e non poco – perché non avrebbero mai
creduto che dietro la donna che sul lavoro è inflessibile, ferma e assertiva, quasi “muscolare”, cui è chiesto di dare risposte precise e immediate e ordini chiari quando per strada ci sono importanti manifestazioni, che fa un lavoro “maschile” come quello del poliziotto insomma, potesse celarsi un animo sensibile
capace di sentimenti forti e delicati”. Una contraddizione? “Direi di no: non puoi fare il poliziotto senza
essere sensibile, empatico, introspettivo, visionario. Amo il mio lavoro come amo la poesia ed entrambi li affronto con lo stesso animo, credo. Non credo di essere dura e ferma sul lavoro, come mi vedono gli altri, ad esempio: credo nel mio lavoro e nel sintagma di valori che ho costruito – spesso dolorosamente – nel corso della mia vita e li porto avanti anche nel mio lavoro, con passione. Forse le passioni non si nutrono di compromessi, no?”. Un augurio. “La Poesia è Viva. Viva la Poesia”.

secchi, senza rime. Affannose sequenze verbali, montate come immagini che raccontano la natura inquieta dei sentimenti. Soprattutto l’amore e le sue contraddizioni, il tempo, l’esistenza. Le poesie di Marilina Giaquinta, poliziotta di professione (dirigente della Polizia di Stato presso la Questura etnea), catanese con un trascorso tutto nisseno, danno conto di un interessante e non scontato lavoro artigianale sulle parole. Parole d’amore: quello che, coi suoi passi svelti, forse troppo svelti, dovrebbe scandire il tempo della vita; e che invece scappa via senza un senso, senza ordine. L’autrice – questa silloge edita da Le Farfalle di Angelo Scandurra rappresenta il suo debutto letterario – esprime la complessità del tema attraverso un esperimento di scrittura ironica e irrequieta, che privilegia la sonorità dei sostantivi, degli aggettivi e delle forme verbali. Non manca l’omaggio alla sua terra, nell’impasto raffinato di parole che non disdegna di utilizzare – qua e là, ma senza esagerazioni – vocaboli dialettali. Insomma, sembra proprio la lingua il senso della verità sconclusionata dell’amore. E nel parlare d’amore, e di poesia, Marilina parla innanzitutto di se stessa. E racconta ai lettori del Fatto Nisseno il periodo trascorso a Caltanissetta alla fine degli anni Ottanta. “Fui aggregata presso la questura nissena – dice – perché in quegli anni si celebrarono i maxi processi per la strage di Pizzolungo (attentato al giudice Carlo Palermo) e per l’assassinio del giudice Ciaccio Montalto. Mi occupavo dei servizi di ordine pubblico predisposti presso il palazzo di giustizia. Caltanissetta – continua – era una parte della Sicilia a me ancora sconosciuta. Ho incontrato persone che
ancora mi porto nella memoria del cuore. Nel tempo libero giravo per la campagna, per cogliere a pieno sguardo le ondulazioni citrine di un paesaggio scabro e solitario che non mi era uso, io nata e vissuta con il mare d’intorno. Ricordo che di fronte al palazzo di giustizia c’era la libreria Sciascia, dove compravo tutti i miei libri e dove mi piaceva trattenermi a parlare di letteratura, scambiare gusti e impressioni”. Nissa ha fama di città noiosa. Dica la verità, si è annoiata anche lei? “No, non mi sono annoiata, io ero in continua esplorazione. Avevo una specie di curiosità bambina: gli accenti, il dialetto, i dolci, le abitudini, tutto diverso ed io mai sazia di cogliere ogni aspetto di questa differenza. Ricordo storie sulle miniere, di fatica innocente e dannata. I ricordi hanno sempre un colore quando cerchi di rivederli”. E che colore è Caltanissetta? “È il giallo arenario della sua pietra, è il colore profumato delle paste dei suoi bar, il rosso concitato delle
chiacchiere per strada, il grigio della strada dritta e uguale che correva la mattina da Catania, è il bianco della neve di dicembre che erano anni che non cadeva, e il silenzio azzurro della sera che scende
quieta e addormenta. Bei ricordi”. A proposito di noia, che cos’è per lei? “Forse la rinuncia alla conoscenza delle cose, una supponente sazietà di aver tutto veduto e tutto vissuto. Ma chi sa di non sapere non si annoia mai, è avido di conoscenza di luoghi, di persone, di cose, di sensazioni, di idee, di scoperte,
insomma di vita e di tempo. Di quello si ha gran conto nelle piccole realtà”. Perché? “Perché nelle città dell’uomo c’è sempre tempo: per bere un caffè e ritrovare l’amico perduto, per chiedere e sapere dei
fatti accaduti mentre non c’eravamo, per far visita e condividere il dolore di un lutto, per sfidare in una partita cruciale la squadra del cuore, per far brindisi in rima seduti ad una tavola dove si sta
stretti e uniti, per comprare la spesa e scambiarsi i saluti ai figlioli che sono andati via, per vivere senza la fretta dello sfaccendio del giorno. Ho sentito che nelle metropoli come Parigi o New York si sceglie la casa dove abitare in base a quello che offre il quartiere e le sue botteghe e alla tranquillità del posto. In fondo,
le metropoli sono uno strano, infinito, concentrico insieme di paesi che si includono l’un l’altro”. Ma cos’è per lei il tempo? “Un orizzonte, come quello del mare: ogni volta che sembra vicino, si allontana sempre di più e non riesci a raggiungerlo. Eppure senza orizzonte non ci sarebbe il mare. Il tempo della vita è l’orizzonte del mare: non bisogna inseguirlo, ma navigarci dentro, cercando di scampare, in qualche modo”.
Torniamo all’amore. La provincia ne facilita o ne ostacola l’esplosione?  “Pare che l’amore soffra della stessa sorte della poesia: mi sento ripetere che a nessuno interessa la poesia, che nessuno più la legge e che nessuno più la vuole. Come l’amore. Sentimento che somiglia tanto a quegli esseri mitologici di cui tutti narrano ma che nessuno ha mai visto e nessuno sa come sono fatti. E invece vedo ogni
giorno di più (anche dai commenti che giungono sul mio libro) che l’amore è la leva di Archimede che solleva il mondo”. L’amore per la poesia influenza il suo lavoro di poliziotta? “Non so. Posso dire cosa hanno detto gli altri dopo aver letto le mie poesie: si sono stupiti – e non poco – perché non avrebbero mai
creduto che dietro la donna che sul lavoro è inflessibile, ferma e assertiva, quasi “muscolare”, cui è chiesto di dare risposte precise e immediate e ordini chiari quando per strada ci sono importanti manifestazioni, che fa un lavoro “maschile” come quello del poliziotto insomma, potesse celarsi un animo sensibile
capace di sentimenti forti e delicati”. Una contraddizione? “Direi di no: non puoi fare il poliziotto senza
essere sensibile, empatico, introspettivo, visionario. Amo il mio lavoro come amo la poesia ed entrambi li affronto con lo stesso animo, credo. Non credo di essere dura e ferma sul lavoro, come mi vedono gli altri, ad esempio: credo nel mio lavoro e nel sintagma di valori che ho costruito – spesso dolorosamente – nel corso della mia vita e li porto avanti anche nel mio lavoro, con passione. Forse le passioni non si nutrono di compromessi, no?”. Un augurio. “La Poesia è Viva. Viva la Poesia”.

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