A Ragusa il reddito disponibile delle famiglie è circa metà di Milano e la disoccupazione morde tre volte di più. Per non parlare dei giovani: dice la Banca d’Italia che in Sicilia il 55% è senza lavoro. Ma per i pochi fortunati ad avere un’occupazione stabile le cose vanno assai meglio che a Milano.
Un cassiere di banca ragusano con cinque anni di anzianità ha uno stipendio del 7,5% inferiore al suo collega milanese. Se però si tiene conto del differente costo della vita, allora scopriamo che la sua busta paga è più alta del 27,3%. E non è ancora tutto, perché per avere il medesimo potere d’acquisto del cassiere di Ragusa, il bancario di Milano dovrebbe guadagnare addirittura il 70% in più. Nel settore pubblico, poi, le differenze a favore dei dipendenti meridionali sono ancora più evidenti. Il salario nominale di un insegnante di scuola elementare con i soliti cinque anni di anzianità è infatti uguale in tutte le regioni italiane: 1.305 euro al mese. Una retribuzione che però in base al diverso indice dei prezzi al consumo nelle due città equivale a 1.051 euro reali a Milano e 1.549 a Ragusa. Con una differenza abissale a vantaggio della città siciliana: 47%. Per pareggiare il potere d’acquisto dell’insegnante ragusano il maestro milanese dovrebbe avere uno stipendio più pesante dell’83%, sottolinea una ricerca che verrà presentata domani a Roma dalla Fondazione Rodolfo Debenedetti. Obiettivo degli autori, gli economisti Tito Boeri della Bocconi, Andrea Ichino dell’Istituto universitario europeo ed Enrico Moretti dell’università californiana di Berkeley, mettere a fuoco le disuguaglianze di salari, redditi e consumi, in gran parte responsabili di una stagnazione endemica.
I numeri dicono tutto. La Provincia di Bolzano, dove i salari nominali sono i più elevati d’Italia, scivola quasi in fondo alla classifica (posto numero 92) di quelli reali se si considera la differenza del costo della vita. Così Aosta, che dal secondo posto passa al 95. Esattamente al contrario di Crotone, che dalla posizione 95 per i salari nominali balza alla seconda per quelli reali. Appena davanti a Enna, Biella, Siracusa, Pordenone, Vercelli, Taranto, Vibo Valentia e Mantova. Tra le dieci province italiane con i più alti salari reali le meridionali sono ben sei. Prima in assoluto, Caltanissetta.
Dati, secondo gli autori della ricerca, che rappresentano una profonda anomalia rispetto a Paesi nei quali i salari sono allineati alla produttività, con il risultato di avere tassi di disoccupazione con minori differenze fra i territori. Boeri, Ichino e Moretti portano l’esempio di San Francisco, dove la produttività del lavoro è superiore rispetto a Dallas: i salari sono quindi più alti del 50% e il tasso di disoccupazione è simile. Anche a Milano la produttività è superiore a quella di Ragusa, ma la differenza salariale è metà di quella fra San Francisco e Dallas: e a Ragusa la disoccupazione è del 223 % maggiore che a Milano mentre le abitazioni nel capoluogo lombardo sono più care del 247%.
Certo la valutazione complessiva delle differenze non può prescindere da altre variabili. Per avere a Ragusa la stessa qualità di Milano, ad esempio, i servizi sanitari costerebbero 18,7 volte in più. Ed è questa anche la ragione per cui a salari reali più consistenti dei lavoratori non corrisponde automaticamente una migliore qualità della vita. Né un apprezzabile impatto sui redditi. La dimostrazione? La provincia italiana con i redditi nominali più elevati, Modena, è al secondo posto per quelli reali (che tengono conto delle differenze territoriali del costo della vita), dietro Biella e davanti Mantova, Reggio Emilia, Verbano, Ferrara, Ragusa, Novara, Trieste e Rovigo. Tutte del Nord tranne Ragusa.
Conclusione, la «compressione dei salari», come viene definita nella ricerca, è causa di maggiore disoccupazione e disuguaglianza nei salari reali a favore del Sud, e di prezzi più cari delle abitazioni e squilibri nei redditi e nei consumi a favore del Nord. Una situazione tale da creare le condizioni per «frenare la crescita senza migliorare le prospettive del Sud». Sul banco degli imputati, «l’apparente equità della contrattazione nazionale» che determina «distorsioni, inequità ed inefficienze». La svolta, secondo gli autori, sarebbe dunque in un legame più stretto fra retribuzioni e produttività, con gli accordi locali che dovrebbero prevalere sui contratti nazionali.
Impossibile, dopo aver scorso le oltre 50 slide della ricerca, non ripensare alle gabbie salariali. Era un meccanismo nato alla fine del 1945,che divideva l’Italia in 14 aree dove si applicavano salari diversi in rapporto al costo della vita. Durò fino a tutti gli anni Sessanta. Il sipario calò definitivamente nel 1972. Sulle gabbie e sul poco rimasto del boom economico. ( Fonte corriere.it)