Quelli che lottarono la mafia senza assecondare l’antimafia di governo
Il Risorgimento italiano fu accompagnato dalla celebrazione dei moti popolari che concorsero alla cacciata dei Borboni dal Regno di Napoli e i gruppi rivoluzionari che favorirono l’annessione della Sicilia al Regno d’Italia erano definiti patrioti.
Delle truppe borboniche si diceva invece che erano piene di briganti e di mafiosi; e questo in parte era vero.
Ma i moti popolari furono animati da squadre armate variamente composte che spesso si finanziavano imponendo con la forza il pagamento di somme di denaro ai municipi e ai proprietari di beni.
Dopo l’unità, l’on. Colonna, duca di Cesarò, ammise onestamente che “quella che ora si chiama mafia” aveva contribuito a fare da “lievito delle rivoluzioni”.
Oggi si chiamerebbero “infiltrazioni”; gli organi del nuovo governo unitario se ne accorsero, quando alcuni nobili e diversi borghesi facoltosi cominciarono a lamentarsi delle scorribande dei “rivoluzionari” nelle loro proprietà.
La franchezza del colonnello Eber
Ippolito Nievo, componente dello stato maggiore garibaldino, scriveva nel 1860 con una certa franchezza: “adesso noi dobbiamo farla da carabinieri contro i nostri alleati di ieri!”
Ma il colonnello Ferdinando Eber, l’ufficiale ungherese che guidò le truppe di Garibaldi fino a Caltanissetta, cercò di smascherare l’ipocrisia dei legalitari del nuovo regime: “non vi è dubbio che le antiche squadriglie hanno avuto in passato e forse hanno anche oggi l’abitudine di vivere alle spalle degli altri: per essere giusti però bisogna dire che è a loro che si deve se la rivoluzione fu tanto viva e non a quelli che non fanno altro che lamentarsi”. Eber descriveva una categoria di privilegiati che, mentre non avevano fatto nulla o avevano fatto molto poco per contrastare i Borboni e anzi forse avevano consolidato privilegi alla loro ombra, ora pretendevano di conservarli, facendo facili applausi ai vincitori del momento e colpendo tutti i possibili loro avversari. “Abbiamo ad ogni passo prove”, proseguiva il colonnello Eber, “che queste cose sono molto esagerate dal timore e dalla immaginazione di quella gente”. Non gli dettero ascolto.
Frattanto però i grandi proprietari che denunciavano i pericoli derivanti dalle “squadriglie”, stabilmente organizzavano le “controsquadre”; assoldavano ai propri servigi i più pericolosi delinquenti, li munivano di armi e ne coprivano ogni malefatta per assicurarsi la difesa dei propri beni.
Quando nel 1865 il prefetto di Palermo Filippo Gualtiero inviò al Ministro un rapporto riservato sulla mafia in Sicilia, dovette ammettere che il diffondersi di quella “associazione malandrinesca” era dovuto alla capacità di intessere dirette relazioni con la politica. E con onesta equidistanza scrisse: “I liberali nel 1848, i Borboni nella restaurazione, i garibaldini nel 1860 si macchiarono tutti della istessa colpa”.
Tuttavia poi, per compiacere il governo della Destra, all’epoca in carica, quando dovette descrivere la composizione del “partito della mafia” in quel momento mise insieme i veri mafiosi, i borbonici e gli ex garibaldini democratici che non ritenevano conclusa la rivoluzione e che davano fastidio a Cavour.
Diego Tajani, il procuratore che resistette ai potenti
Un campione della battaglia legalitaria in Sicilia era il questore di Palermo Giuseppe Albanese che, dall’alto della sua formazione di funzionario sabaudo, nel 1869 si lamentava della scarsa “educazione” degli isolani: “l’azione della pubblica sicurezza non basta a porre un freno all’innata abitudine che hanno qui di portare le armi…”
Per contro Albanese si circondò dei più loschi figuri della mafia locale, che a modo loro lo aiutavano ad imporre l’ordine. E per ottenere la loro fedeltà, tollerò illegalità talmente eclatanti da giustificare numerose iniziative della magistratura, che, nonostante i tempi, si mostrò indipendente dal potere politico e per questo fu accusata di “spirito di parte”.
Quando il Procuratore generale di Palermo Diego Tajani indagò su un furto di preziosi al Museo Nazionale, con un’abile mossa investigativa, riuscì a trovare la refurtiva nella casa di tale Ciotti, uno dei poliziotti del gabinetto particolare del Questore Albanese. Ma gli frapposero tanti ostacoli che l’istruttoria non riuscì ad andare a termine.
Quando nel 1865 due giovani latitanti presero contatti riservati con i magistrati per consegnarsi e riferire circostanze utili a ricostruire le collusioni tra la criminalità e i funzionari di pubblica sicurezza, il giorno concordato per l’incontro furono trovati uccisi. Stavolta furono raccolte prove schiaccianti su Ciotti, Albanese e altri pseudo-poliziotti da lui reclutati.
Dovette intervenire il Ministro degli interni, Giovanni Lanza, a difendere il questore del Regno, che fu costretto a dimettersi, ma il mandato di cattura a suo carico non fu fatto eseguire.
Dopo un lungo processo Ciotti fu condannato insieme a qualcun altro, mentre Albanese e i suoi più diretti collaboratori furono assolti per insufficienza di prove.
Al Procuratore Tajani, sconfitto e dileggiato, offrirono un posto in Cassazione; ma lui rifiutò promozione e contestuale rimozione e lasciò amareggiato la magistratura.
Frattanto nel governo del Regno d’Italia alla Destra subentrò la Sinistra, che tanto aveva criticato il collateralismo degli avversari politici con la mafia.
Solerti nel vedere tali collusioni fino a portare Tajani in Parlamento quasi a risarcirlo dei torti subiti, i governanti della nuova era mostrarono invece meno attenzione quando i mafiosi cercarono di entrare nelle loro fila.
La nota riservata dei Carabinieri su Mazzarino
In quel periodo vennero legittimate le guardie campestri, cui veniva di fatto affidata la sicurezza pubblica, ma che replicavano i metodi delle controsquadre di poco grata memoria. Per limitarsi ad un solo esempio, nel 1894 i carabinieri di Terranova (oggi Gela) avevano informato con preoccupazione le autorità che le guardie campestri di Mazzarino erano state “parte carcerate, parte processate per reati diversi e che erano circondate dalla massima sfiducia della popolazione”. Non risultano riscontri.
Invece il Ministro degli Interni Giovanni Giolitti si preoccupava nel 1893 delle tante associazioni di contadini, i Fasci siciliani, che minacciavano gli interessi delle classi più abbienti e più vicine al Governo.
Tanti maggiorenti siciliani si affrettarono a fare sapere alle autorità che i Fasci erano delle associazioni di pregiudicati e mafiosi e che pertanto dovevano essere perseguite.
Giolitti, che pure non aveva disdegnato di circondarsi di personale politico vicino alle organizzazioni mafiose dei vari territori siciliani, diramò una nota riservata a tutti i prefetti invitandoli a predisporre l’elenco di tutti i pregiudicati che facevano parte dei Fasci, non senza nascondere che questo censimento doveva servire ad un’azione incisiva contro quei gruppi criminali.
L’imparzialità del prefetto Colmayer
Era vero che nei Fasci entrarono diverse persone legate alla mafia; ma nella provincia di Caltanissetta tra i soci riuscirono a censire circa mille pregiudicati, inserendovi anche quelli che erano stati segnalati solo per avere partecipato alla manifestazione del 1° maggio.
Tuttavia nella burocrazia di quel tempo c’era gente che voleva servire lo Stato, senza essere servo del Governo, e che preferiva la verità alla lotta politica.
Prefetto di Palermo era un gentiluomo napoletano, Vincenzo Colmayer, che, pur sapendo di non fare piacere a Giolitti, gli scrisse schiettamente: “dopo un attento esame portato sui singoli fasci ho rilevato che i condannati messi a confronto col numero piuttosto considerevole dei consoci, sono un’insignificante minoranza ed è perciò che non mi sembra che si possa, sotto questo riguardo, adottare un provvedimento di rigore a carico dei Fasci”.
I Fasci furono poi colpiti diversamente e frattanto nessuno dei Governi che volevano riaffermare la legalità, sembrò occuparsi di quelli che lo storico e uomo politico del tempo, Gaetano Mosca, chiamava gli “onorevoli, usi a trescare colle cosche mafiose”.
Sembrava che, nelle alterne vicende della storia, il potente di turno vedesse mafiosi tra le fila dei suoi avversari e tutelasse i “pezzi di mafia” che si erano alleati con lui.
I “funzionari di coscienza elevata”
Frattanto, come scriveva Mosca, capitava che qualche funzionario di coscienza elevata concentrasse i propri sforzi “nel distruggere una singola cosca di mafiosi, che egli giudica più pericolosa delle altre”, per “lasciare benefica traccia del suo passaggio, strappando qualcuna delle spine che affliggono la provincia: tanto sa benissimo che, se si provasse a svellerle tutte, altro risultato non conseguirebbe che quello di insanguinarsi inutilmente le mani, e, nel caso difficilissimo che riuscisse, altro premio non avrebbe che quello di lasciare ai prefetti, ai questori dell’avvenire le rose da cogliere”.
Eppure se qualche passo in avanti davvero si fece nel contenere la mafia tutta, quella vera, quella di governo e quella di opposizione, quella dei maggiorenti dell’oggi e quella dei maggiorenti di ieri, lo si deve ai non tanti (ma nemmeno pochi) che fecero il proprio dovere senza esseri servi del potere.