Totò Amico se ne è andato. Silenziosamente. Come silenziosamente ha vissuto in questa città. Se ne è andato i primi giorni di settembre del 2013. Caltanissetta e la Sicilia perdono un uomo buono e generoso. Un uomo schivo e sensibile. Un uomo persino sarcastico, a volte. Un artista che ha saputo rappresentare la bellezza, la malinconia, l’indomita asprezza della nostra terra. “Solo gli spiriti puri amano il colore” – diceva Vassily Kandinsky. Totò Amico era una spirito puro: amava i colori, i rami contorti e verdi e misteriosi degli alberi, l’odore del mare e il vento. La terra e le pietre. La calda vita della città.
Voglio qui ricordare il prezioso testo di presentazione della mostra “Alberi e volti di Totò Amico”. Un testo scritto da Leonardo Sciascia nei primi anni Settanta. “Non sappiamo quanto come pittore quel Carl Graf che nel 1815 pubblicò a Stoccarda due volumi di impressioni e notizie di un viaggio in Sicilia fatto qualche anno avanti, naturalmente seguendo l’itinerario di Goethe. Non molto, forse: ma le ventisei incisioni che accompagnano il testo hanno una certa immediatezza e felicità, e decisamente si discostano dai modelli, che allora dovevano essere ben presenti, del Saint-Non e dell’Houel quanto, per fare un esempio, un reportage di Cartier-Bresson si discosterebbe dal volume fotografico dedicato alla Sicilia dal Tourig Club. Evidentemente al Graf i monumenti e i luoghi mitici interessavano relativamente: e se con la parola ne dà ragguaglio, col segno ne dà lievissima e lontana traccia. Le città, i templi greci, l’Etna, si delineano appena sugli sfondi: mentre la campagna, gli alberi soprattutto, si accampano in primo piano assumendo, a contrasto dei profili appena tracciati di paesi, montagne e monumenti, una vibratile qualità di segno, quasi ad animarsi e a stormire. Questa attenzione alla natura è, si capisce, spiegabile nella differenza coi viaggiatori che lo avevano preceduto; ma ugualmente ci sorprende, un secolo e mezzo dopo, che il Graf rappresentando la campagna e gli alberi, per così dire, individualizzandoli, abbia più o meno consapevolmente tentato un discorso sulla Sicilia realistico e insieme simbolico che in un certo senso precorre quello che i pittori siciliani oggi fanno. Guttuso, Caruso, Mirabella (e tanti altri più o meno noti): ciascuno a suo modo, ma sempre cogliendo l’albero come teatro di quella metamorfosi, di quel mito, di quel mistero. E così è negli alberi che Totò Amico disegna e colora, nella campagna, nelle rocce: la natura sembra si sia appena rinchiusa (involgendosi in una vita di radici e di foglie, nodi, schegge, rughe, immemoriali secrezioni e levigazioni) sull’uomo. Per cui sembra poi del tutto ovvio che sui fogli si realizzi come un processo inverso, per cui dalle rughe e dai nodi dell’antico ulivo, dal mandorlo, riaffiori il volto umano, confitto nella pena della vecchiaia e nell’antica pena del vivere. E non voglio entrare, come si sul dire, nel merito, giudicare la sua pittura coi valori della pittura: ma mi pare che le sue cose siano tutt’altro che “facili”, o lo sono nella misura in cui lo sono le cose vere e sentite; e che cioè dicano non soltanto di uno stato d’animo, ma di un modo di essere e di una condizione umana di cui la Sicilia è, dice un poeta brasiliano, “banco di prova”.
Totò Amico è nato a San Cataldo nel 1929 ma, se si escludono gli anni giovanili, di formazione, ha sempre vissuto e lavorato a Caltanissetta. La sua opere pittoriche sono state presentate e recensite da personaggi di spicco della cultura italiana quali Franco Grasso, Leonardo Sciascia, Sebastiano Addamo. Verso la fine degli anni Sessanta fu invitato ad esporre le sue tele, i sui disegni ad inchiostro di china presso la Galleria Nuova Pesa di Roma, diretta da Antonello Trombadori. Tantissimi sue opere pittoriche sono presenti nelle case, negli appartamenti della borghesia nissena, ma anche all’Hotel San Michele e in diverse banche, sempre determinando, generando uno spazio “eterotopico” peculiare e fortemente espressivo. Totò Amico ha insegnato disegno e storia dell’arte all’Istituto Magistrale e al Liceo Scientifico di Caltanissetta. I suoi ex alunni lo ricordano con affetto e gratitudine. Certo è che negli anni in cui le città e le campagne venivano quasi cancellate da una inarrestabile colata di cemento (l’edilizia speculativa che ha connotato e connota il nostro spazio esistenziale), Totò Amico ha sempre guardato altrove (la natura, gli alberi, la terra), oppure ha osservato la città, cercando la bellezza, la poesia, la gioia di vivere. E d’altronde, in una intervista del 1983, in cui Franco Spena chiedeva cosa rappresentasse per lui la terra, affermava: “Di quella sono fatto io, e tutto quello che amo”. Dunque dalla terra trae origine e forza il suo lavoro di artista, di intellettuale, di ecologista ante litteram che, dalla fisicità delle cose estrae forme, colori, segni. Ricca, ricchissima di colori è la tavolozza di Totò Amico: colori caldi, luminosi, squillanti. A volte freddi, eterei. Oppure opachi. A volte, persino torbidi. Colori che realizzano superfici attraversate da segni forti, incisivi e una pennellata che si scioglie, si raggruma, passa su se stessa. Le figure umane dei disegni in bianco e nero, le teste e i volti delle ragazze, le vecchie col loro triangolo di volto che emerge da un cupo sfondo di scialle e di dolore. Ma anche gli sguardi perduti, smarriti, i colori freddi e duri dei volti dei minatori. Oppure, ancora, i volti e i paramenti dei cardinali espressi con colori forti, struggenti, con inesorabile, lucida ironia.
“L’arte è lunga, la vita breve” – ha scritto Seneca. Di Totò Amico resteranno le opere e il ricordo indelebile del suo malinconico, consapevole sorriso. I figli Dario e Fabio condividono oggi il dolore della perdita del padre ma anche la memoria di tanti, preziosi momenti di una vita.