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Anche noi siamo stati migranti

Michele Spena

Anche noi siamo stati migranti

Dom, 22/12/2013 - 20:45

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arrivo (1)Anche noi siamo stati migranti, gli italiani e i siciliani più di tutti, emigranti e “clandestini”, come racconta il film “Il cammino della speranza”, che Pietro Germi nel 1950 girò proprio dalle nostre parti,  tra Capodarso e Sommatino, tratto da un romanzo del nostro Nino Di Maria

In quel film, uno dei capolavori del neorealismo italiano,  un gruppo di  minatori nisseni rimasti senza lavoro venivano reclutati da un “mediatore” e vendevano anche i materassi per procurarsi i soldi per il viaggio verso la Francia.

Ma il mediatore disonesto li abbandonava durante il viaggio e dopo un’odissea lungo tutta la penisola, tra lavoro “nero” e fughe dalla Polizia, arrivavano sul confine francese, in mezzo alla neve delle Alpi, e i doganieri li lasciavano passare, insieme alla loro speranza di una vita migliore.

La Sicilia è stata la regione d’Italia che ha lasciato partire più emigranti, sin dalla fine dell’800. Tra il 1901 e il 1915,  più di un milione di siciliani (1.126.513) sono partiti in cerca di lavoro e di fortuna. Partivano sui bastimenti, in terza classe, ammassati anche sui ponti delle navi; e per raggiungere prima  il treno che li avrebbe portati all’imbarco, a Palermo, era stata costruita la scalinata Silvio Pellico, dal centro storico, dalla Provvidenza,  diritta fino alla Stazione, una cascata di gradini di pietra su cui era più facile trascinare le valige, i fagotti, con le poche cose che si potevano portare via, all’avventura nel “nuovo mondo”.

l_116864_0042301_0c80dc75Non tutti arrivavano a destinazione. Anche allora carrette del mare li caricavano sull’oceano Atlantico in condizioni disperate, e i naufragi si susseguivano, spesso in vista della costa, come oggi sul Mediterraneo. E di centinaia di morti italiani affogati nel mare non se ne parlava sui giornali, se non in qualche caso clamoroso. Non “deponeva bene” per l’immagine dell’Italia di allora.

Non c’era famiglia nissena, all’inizio del secolo scorso, che non avesse un parente in America. Andavano in Sud America, in Argentina,  (dove oggi il 50% degli abitanti è di origine italiana), e negli Stati Uniti, a Brooklyn, passando per Ellis Island, l’isola della statua della libertà, in cui dovevano superare i controlli sanitari, la registrazione dei documenti, l’identificazione della “razza” di appartenenza, spesso definiti “no white”, perché di pelle scura.

Le scene di tanti film sono state la storia della vita di tanti nostri nonni, zii, cugini, siciliani e nisseni, costretti a tagliare le proprie radici per vivere, coraggiosi, o disperati.

In Italia i governanti tra ‘800 e ‘900 favorivano l’emigrazione: significava un “forte alleggerimento della pressione demografica”, utile a controllare i conflitti sociali, specialmente dopo l’ondata dei Fasci Siciliani, il movimento dei contadini e dei minatori del 1893-96, contro cui il governo del siciliano Crispi aveva mandato l’esercito a sparare sulle piazze, lasciando sul selciato insanguinato più di un centinaio di morti, anche donne e bambini.

Con le rimesse di quelli che erano emigrati, con i soldi che mandavano a casa, interi paesi della Sicilia hanno visto sorgere le case che le loro famiglie riuscivano a costruire, e nei decenni successivi, il tessuto economico del credito locale, le Casse rurali e le banche dei paesi, si sono alimentate dei loro risparmi.

L’ondata dell’emigrazione dal Sud e dalla Sicilia si ripeteva a metà del ‘900, dagli anni ’50. Fallita la riforma agraria, sempre più in crisi le miniere, intere famiglie lasciavano i nostri quartieri, i nostri paesi, per lavorare in Germania, in Belgio, in Francia, in Svizzera, oppure al Nord, a Torino, a Milano, nel “triangolo industriale”; manodopera che ha costruito il “miracolo economico” degli anni ’60, il “boom”, l’Italia quinta potenza industriale del mondo.

news_51321_sicilian_crossing_emigratiManodopera spesso “venduta” legalmente con accordi internazionali che ne vincolavano l’ingaggio senza condizioni, in cambio di forniture di carbone e di energia per le industrie italiane: come i minatori di Marcinelle, quasi tutti italiani, bruciati vivi  in uno dei disastri più devastanti della storia del lavoro.

Sono stati i primi a costruire l’”Europa”, molto prima di tanti banchieri.

Partivano prima gli uomini, e andavano ad abitare nelle baracche di legno, vicino ai cantieri, vicino alle fabbriche, pagando un letto o un turno per l’uso di un letto, e tirando la cinghia  per fare arrivare le famiglie. Non tutti lo facevano, e nei nostri paesi restavano tante “vedove bianche”, mogli degli emigrati risucchiati dal grande Nord, di cui non si erano avute  più notizie.

Negli USA da Brooklyn alle città industriali dell’interno (i nisseni massicciamente a Rochester), a Torino i nisseni a Venaria Reale, i riesini a Genova, i villalbesi ad Albenga, i deliani in Canada, a Toronto e in Venezuela, i sommatinesi e Grenoble e a St. Etienne. Si cercava di ricostruire nell’emigrazione una comunità identitaria, un legame di protezione sociale. Nel bene e nel male. Spesso la partenza e l’ingaggio per il lavoro al nord venivano “mediati” da speculatori professionisti. Anche qui, a Caltanissetta,  a pochi passi da noi.

A Torino, a Milano, in Svizzera, in quegli anni si leggevano spesso i cartelli della vergogna: “Vietato l’ingresso ai cani e ai meridionali”, “Non si affitta ai meridionali”. Fatica doppia per essere riconosciuti come persone, come lavoratori, per integrarsi in quella società del profitto. Fino a diventare leghisti, come molti oggi, paradossalmente, ex-meridionali.

Fino al 2009, in Sicilia c’erano più siciliani emigrati che immigrati “extracomunitari”. Ancora oggi 687.394 siciliani risultano “emigrati”. E tra loro tanti giovani laureati, con il computer al posto delle valigie di cartone, figli nostri sui quali abbiamo investito per farli studiare tutto quello che avevamo, che vanno ad arricchire il Nord, e l’Europa, e non ritorneranno.

Sui libri di storia si legge: “gli italiani sono stati protagonisti del più grande esodo migratorio della storia moderna”.

E oggi l’Italia, e la Sicilia, sono la porta dell’Occidente per le migrazioni africane, asiatiche, dei popoli più poveri che fuggono dalla guerra e dalla fame, preda di speculatori criminali più feroci di quelli che hanno taglieggiato i nostri emigrati tanti anni fa. Si lanciano per mare senza sapere nuotare, su barconi che cadono a pezzi, nelle mani di scafisti che li buttano in acqua per non incorrere nella legge che considera l’emigrazione “clandestina” un reato, tanto da scoraggiare spesso anche i pescatori che incrociano nei nostri mari, che rischiano di essere considerati “complici” se gli salvano la vita.

La legge del mare, legge naturale “non negoziabile” che i pescatori sentono come un dovere, come l’Antigone della tragedia greca che doveva seppellire il fratello ribelle anche sfidando la legge della città, impone di salvare i naufraghi, di portarli sulla terraferma, anche se il Creonte contemporaneo, la legge Bossi-Fini che ha istituito il reato di clandestinità, lo vorrebbe impedire.

E seppellire i morti ha segnato, dalla preistoria, il passaggio dalle caverne alla civiltà. Oggi nei nostri cimiteri siciliani sono state sepolte le ultime vittime della strage della globalizzazione, senza nome, con dei numeri per identificarle, accompagnate da preghiere delle diverse religioni dei popoli mediterranei ai quali appartenevano.

La piccola corona di fiori lanciata da Papa Francesco nel mare di Lampedusa qualche mese fa, è stato il primo riconoscimento “istituzionale” per migranti morti in mare della dignità di persone umane, la prima indicazione indiscutibile e perentoria delle priorità civili dell’Europa cristiana, oggi. Non bastano il cordoglio e la preghiera: ci vogliono scelte politiche, azioni efficaci in difesa della vita, di tutte le vite, a cominciare da quelle dei poveri.

La prima “questione morale” oggi si definisce rispetto alle garanzie elementari di giustizia e di dignità che siamo capaci di promuovere nelle nostre società “avanzate”. E le nostre prospettive di sviluppo obbligatoriamente devono incrociare la globalizzazione dei diritti, del lavoro e della pace in tutte le parti del mondo e in tutti i paesi della comunità internazionale. I cinesi “clandestini” che lavorano nei sottoscala per pochi centesimi al giorno sono l’altra faccia della crisi che chiude la FIAT a Termini Imerese e “delocalizza” le produzioni industriali in paesi in cui il lavoro delle persone umane si può comprare a poco prezzo, senza tante garanzie.

Cancellare la “clandestinità” deve significare anche fare emergere dal buio il lavoro, i diritti, l’uso delle risorse e la valorizzazione delle capacità. Fare finalmente dell’Italia “una repubblica democratica fondata sul lavoro”.

Anche la civiltà dell’Europa  misurerà su questo la sua modernità; e non sul contenimento dello spread, se vogliamo rendere ancora attuale la tradizione di civiltà dell’Occidente. Dove sono stati inventati i “diritti”, e il diritto, come si legge nei nostri libri di scuola.

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